“Il mio unico rimorso è quello di non aver potuto fare di più se non dedicare la mia vita al mio Paese”.
Sono molte le figure ispiratrici di valori e ideali connessi all’indipendenza coreana e, storicamente, gli oltre trent’anni di occupazione subita e di lotta fiera per ottenere la propria autonomia sono costellati davvero da tante donne e uomini che hanno sacrificato la propria vita per la causa nazionale.
Una delle figure più interessanti – e, forse, anche una di quelle di cui stranamente se ne parla di meno – è Kim Gu, politico, attivista e rivoluzionario coreano, che fu Capo di Stato coreano del Governo provvisorio e in esilio tra il 1926 e il 1927, uno degli artefici più strenui dell’indipendenza coreana, figura oggi ammirata e rispettata in entrambe le repubbliche coreane, che ci ha lasciato un “Diario” in più volumi, contenente le sue memorie, le sue attività rivoluzionarie e gli eventi storici dell’occupazione della penisola coreana. E, in effetti, la sua vita sembra proprio un romanzo, ribelle, rivoluzionario e tragico, dove le sue vicende personali sono diventate parti della storia stessa coreana, fino alla sua morte, assassinato nel 1949, dopo l’indipendenza, mentre cercava di trovare un compromesso tra il Nord comunista e il Sud nazionalista per scongiurare la separazione e la guerra fratricida.
Noto semplicemente come “paekpom“, la cui traduzione corrisponde più o meno al significato di “uomo ordinario” o “uomo qualunque”, per la sua volontà di paragonarsi al resto della popolazione coreana oppressa dalla dominazione, senza alcun particolarismo, Kim Gu nacque come Kim Changam nel 1876 in un villaggio nei pressi di Haeju (oggi nel territorio nordcoreano) da un’ex famiglia nobile. Il padre, infatti, apparteneva all’antica nobiltà di Joseon (nella classe degli yangban) del clan dei Kim di Andong, caduta in disgrazia nel XVII secolo, dopo la condanna del consigliere di Stato Kim Chajom.
La sua infanzia fu segnata dalla povertà estrema, dalle difficoltà finanziarie della famiglia e dalla malattia (un’epidemia di vaiolo a due anni e una paralisi a dodici anni), ma anche dalla crescente convinzione che la situazione geopolitica internazionale continuava a mutare in sfavore del regno di Joseon, la cui autonomia veniva continuamente compromessa dalle infiltrazioni giapponesi e occidentali. Per questo motivo, a soli 16 anni, Kim Gu si unì al gruppo Donghak (o Tonghak), da cui ricavò gli insegnamenti confuciani alla base anche della sua teoria politica, e nel 1894, a 17 anni comandò una fazione di rivoltosi nella Rivoluzione contadina di Donghak (la stessa che fa da sfondo al k-drama storico “Nokdu Flower“), da cui defezionò l’anno successivo, per fuggire in Manciuria e unirsi all’Esercito dei Giusti. L’assassinio da parte di sicari giapponesi dell’imperatrice Myeongseong, lo spinse ad addentrarsi all’interno di gruppi rivoluzionari che tentavano di liberarsi della presenza giapponese attraverso atti terroristici, che lo coinvolsero nell’uccisione del mercante giapponese Tsushida Josuke, sospettato di essere dietro l’esecuzione dell’imperatrice, per cui Kim Gu fu condannato e incarcerato.
Tuttavia, nel 1898, riuscì ad evadere dalla prigione di Incheon, insieme ad altri detenuti coreani ribelli. Dopo essersi nascosto per un anno in un monastero buddista, tornò nella casa paterna quasi nell’anonimato e si convertì al cristianesimo, accogliendo la cultura occidentale all’interno dei rinnovati principi confuciani già propugnati per cercare di costruire un’identità al popolo coreano. In questo periodo, studiò e lesse molto, con una voglia di migliorare e portare avanti la propria cultura che non ha pari, fece tanti disparati lavori (dal fattore all’insegnante) e iniziò a preparare la sua attività indipendentista, che si intensificò dopo il Trattato di Eulsa del 1905, secondo cui la Corea diventava un protettorato giapponese, e il Trattato di Taft-Katsura, che legittimava il dominio giapponese in Estremo Oriente anche a seguito della vittoria nella guerra contro la Russia.
Sono gli anni della fondazione dell’Associazione della Nuova Popolazione da parte di Ahn Chang-ho a Los Angeles, dell’assassinio di Ito Hirobumi da parte di An Jung-geun (su cui il film “Hero” e il film “Harbin“) e del progettato attentato contro il governatore generale di Joseon Terauchi Masatake. Kim Gu venne arrestato di nuovo e condannato ai lavori forzati per 15 anni. Dopo torture e percosse che lo sfigurarono permanentemente (perso l’uso dell’orecchio sinistro), Kim Gu fu rilasciato prima di finire di scontare la condanna, ma, dopo aver partecipato al Movimento per l’Indipendenza del Primo Marzo, partì in esilio a Shangai.
Ed è qui che forse iniziò la fase più “politica” della sua lotta per l’indipendenza, che mise in contatto con gli altri leader rivoluzionari del periodo, Synghman Rhee, che, poi, divenne il primo Presidente della Corea del Sud, e Kim Il Sung, poi leader nordcoreano, diventando parte del governo provvisorio in esilio dal 1919 al 1926, ma anche fautore di campagne per raccogliere il consenso e i finanziamenti esteri per la causa coreana, dagli Stati Uniti, alla Francia, al Regno Unito, fino ad incassare anche la collaborazione del Kuomintang cinese. Al tempo stesso, fu anche la più rivoluzionaria e pericolosa della sua attività, fondatore dell’Organizzazione patriottica coreana, responsabile di assassinii illustri di politici e funzionari imperiali giapponesi e di diversi attentati dinamitardi, che lo resero inviso ad una parte della popolazione cinese – anche per le sue idee anti-comuniste, ma che, comunque, non lo fecero desistere dai suoi propositi indipendentisti. Nel 1935, fondò il Partito Rivoluzionario Nazionale Coreano, che confluì, poi, nel Partito Nazionale Coreano (한국국민당).
Furono tanti gli sforzi e i compromessi che Kim Gu cercò per riunificare il fronte per la liberazione e molteplici pure i fallimenti, ma non rinunciò mai alla causa a cui aveva votato la vita e che lo portò anche ad offrire supporto militare agli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale, con il cosiddetto Eagle Project.
Il suo ritorno in patria coincise con il ritorno dell’indipendenza coreana per cui si era adoperato tanto ed iniziò una nuova fase della lotta e della strategia di Kim Gu, quella della mediazione che aveva tentato di mettere in campo già da un decennio per ricompattare il fronte per l’indipendenza, cercando di superare tutti i contrasti e le diversità politiche presenti in Corea, ma anche cercando di salvare la sua patria da una separazione, che temeva avrebbe potuto compromettere per sempre la pace del suo popolo.
Dopo una vita di lotte, anche molto gravose e pericolose, e dopo aver assistito di prima persona a tanta violenza, l’ultimo messaggio di Kim Gu fu per la vera chiave interpretativa per la costruzione di una nuova pace, che doveva consistere nella cultura.
“Ho sentito la sofferenza di essere stati invasi da un’altra nazione e non voglio che la mia nazione ne invada altre. Credo che sia sufficiente che le nostre vite sia in salute e prosperino nel benessere e che la nostra forza sia in grado di prevenire invasioni esterne. L’unica cosa che desidero in quantità infinita è il potere di una nobile cultura. Perché il potere della cultura ci rende felice e, al tempo stesso, dà la felicità agli altri. Le persone ragionevoli oggi sono infelici perché mancano l’umanità, la giustizia, la compassione e l’amore. Se questi valori potessero radicarsi nei nostri cuori, il benessere che l’umanità sta vivendo sarebbe sufficiente per rendere possibile che tutti i due miliardi di popolazione mondiale vivano bene. E solo il potere della cultura può illuminare le persone sull’importanza di questi valori. Non vorrei che la mia nazione imitasse le altre, ma piuttosto che vorrei che fosse una nazione che possa dare origine ad una nobile cultura. Desidero una vera pace nel mondo e desidero che sia realizzata attraverso il potere della cultura della mia nazione”.
Laura
