“Essere single non è un gioco di attesa, ma è uno stile di vita“: così recita la frase di presentazione del film “Single in Seoul“, presente in tutte le locandine internazionali, e quasi potrebbe trarre in inganno con quella che può sembrare la solita trattazione brillante e comica della vita da scapoli refrattari alla coppia e portati unicamente al godimento dei sensi di tante pellicole americane. Nulla di più sbagliato, visto che a correggere interviene già quel titolo scritto in hangul, ma letto in inglese, che campeggia in grande sopra l’immagine dei protagonisti e fa confondere la mente. “싱글 인 서울” non è una traduzione coreana, ma è letteralmente la trasposizione, con i caratteri dell’alfabeto coreano, del corrispondente inglese “Single in Seoul”, traslitterato pari pari, senza rispetto della grammatica coreana. Se non fosse che quel carattere lì nel mezzo, cerchiato dalla grafica della locandina, è 인, che leggiamo come “in” e che sembra introdurre il complemento di stato in luogo, non è altro che la trasposizione in hangul dell’hanja 人, che indica la persona nella sua unità singola e nella sua unicità e interezza, nel proprio intimo di essere se stessi. La persona come monade, come complementarietà di corpo e anima, come individuo.
Quella persona che si staglia da sola nel centro rende l’idea dello stile di vita da single annunciato, ovvero di saper vivere da soli, o, meglio, in solitaria, facendo silenzio attorno e richiamando se stessi in mezzo all’affollato rumore del mondo, un’accortezza riflessiva che in Corea del Sud esiste da tempo e che è diventato quello stile di vita dell’Honjok (혼족), ovvero la consapevolezza di stare da soli, di fare attività da soli e di ricaricarsi riscoprendo se stessi.
Secondo le statistiche, questo movimento silenzioso è andato per la maggiore a partire dal 2010, ma ha trovato grande respiro e affermazione nel periodo post-COVID, coinvolgendo soprattutto la generazione dei Millennials e degli Z, ma anche di molte frange della X, rileggendo il mondo e il tempo libero in chiave introversa e solitaria, ma più concentrata sulla propria salute mentale. 혼족 indica una “tribù di un solo componente”, per cui vuol dire “fare attività volontariamente da soli”, con consapevolezza, lucidità e autodeterminazione e si pone in contrasto con la società “di gruppo”, formata sull’affermazione della validità della regola “dei più” e dell’autorità di una sociologia tribale.
Spesso, infatti, la società tende a condannare chi è solo, quasi a demonizzare i comportamenti degli individui che non sono legati in coppia e/o che non si riconoscono in gruppi specifici e determinati, relegandoli ad una forma esasperata di narcisismo egoista o, addirittura, ad una colpa data dal cattivo carattere e dalla mal sopportazione. E ciò rischia di costringere le persone ad entrare mutamente in branchi, perdendo se stessi e la propria unicità, per, poi, precipitare completamente quando ci si ritrova negati dalla società.
L’honjok contesta questo tribalismo e sostituisce il comportamento di gruppo a quello dell’individualità, non per escludersi dalla società (coloro che seguono la filosofia honjok non sono degli hikikomori), ma per comprenderla meglio senza farsi cannibalizzare. L’honjok vive perfettamente in società, dialoga, sa interagire con colleghi, amici e conoscenti, può anche legarsi in una relazione, ma antepone se stesso e la propria salute alle imposizioni esterne. Nasce single, non perché attende l’anima gemella, ma perché sa che la prima anima che deve amare appartiene a sé e, come tale, impara a darsi un appuntamento con se stessa/o.
Per quale motivo molte attività vengono precluse se non si è in coppia o in gruppo?
Ad esempio, spesso si esce di casa per andare a mangiare fuori, perché il pranzo o la cena implicano un incontro con altri. L’honjok è anche honbap (혼밥), ovvero la bellezza di scoprire che si può uscire di casa per andare a mangiare da soli, come se si avesse un impegno per pranzo/cena. Ed è così che i giovani coreani escono e vanno a mangiare da soli nei convenience store (a qualsiasi ora, anche di notte, credetemi), nelle caffetterie e nei bar (spesso con l’immancabile smartphone davanti agli occhi per non incrociare nessuno con lo sguardo o, ancora meglio, con un buon libro per rimanere in silenzio con se stessi), nei fastfood (meta generica di famiglie e di comitive chiassose) o anche nei ristoranti e nei grill (livello di honjok piuttosto alto).
Oppure è normale pensare che si esca di casa per andare a bere con amici, ma l’honjok è anche honsul (혼술), ovvero la bellezza di bere da soli, con tanto di sbornia in solitaria (come vediamo spesso nei drama), o ancora è difficile pensare di uscire per andare al cinema o al karaoke o in un locale a divertirsi senza qualcuno al fianco, ma l’honjok è anche honnol (혼놀), cioè la capacità di divertirsi da soli, magari cantando in un coin-nurebang (i karaoke coreani a gettone) per un tempo predeterminato.
Stare bene con noi stessi vuol dire imparare a conoscerci e ci si conosce col tempo, piano piano, frequentandoci nel nostro tempo libero, senza la restrizione di sentirsi limitati a cosa dire o non dire in società. Conoscersi, allietarsi e calmarsi: rivendicare il diritto di stare da soli, comprendendo la solitudine e accogliendola, quasi analizzandola in ogni suo piccolo aspetto per capirla e per lasciarsi cullare da essa. Nessuno ama la solitudine, ma chi entra in sintonia con essa ha una marcia in più, perché la pratica e non si fa intimorire, la frequenta a tratti e sa quando cercarla e quando allontanarla.
Il fenomeno honjok è stato indagato e messo su carta dalla giornalista italiana Silvia Lazzaris e dall’autrice sudcoreana Jade Jeongso An nel saggio “HONJOK: Il metodo coreano per vivere felici con se stessi” (edito da Vivida), una di quelle lettura che bisognerebbe sempre tenere in libreria e tornarci di volta in volta per scoprire noi stessi e praticare la solitudine senza timore. Perché saper stare da soli ci libera dai ruoli imposti dalla società e ci rende più consapevoli di riuscire ad affrontarla, a viverci senza farci inglobare e senza farci spersonalizzare, un diritto al tempo libero da vivere da sé.
E, voi, avete mai provato ad uscire di casa, andare a mangiare da soli, organizzarvi una serata al cinema e, magari, programmare un viaggio in solitaria da soli con voi stessi? Posso garantire che è un’esperienza unica, ci si sente più forti e più carichi. Più se stessi, insomma.
Laura

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