“To be able to understand one another, even after a short conversation. That’s important.”
Voi direte che è il solito drama action-crime, tutto testosterone, botte e risse e che, quindi, è la solita visione trita e ritrita, a cui certo cinema e certa TV ci hanno abituato da decenni. Oppure direte che è la solita trama noir in regime di vendetta, che tanto piace ad Est, con macabre scene di sangue, uccisioni a go-go, un tessuto criminale che avvicina Seoul a Sin City e la classica parabola dell’eroe puro e buono che cerca di eliminare i mali della società. Nulla di errato ad affermare che tutti gli ingredienti predetti siano presenti anche in Bloodhounds, perché, in effetti, è un action-crime con muscoli, pugni, armi, sangue e i peggiori criminali di Seoul, che un po’ mi ha richiamato quei film di kung fu con Bruce Lee che mio nonno mi faceva sorbire da piccola (sì, sono cresciuta a suon di western e gangster movie di ogni tipo). Ma non è solo questo o, meglio, l’action è solo un pretesto, perché la storia mira a qualcosa di molto più elevato, come la ricostruzione della quiete familiare, dei piccoli legami di affetto che uniscono le persone, del comprendersi l’un l’altro, senza nemmeno doversi parlare, del coraggio e della lealtà, del discernere la possibilità di fare buone azioni dal marcire orribile a cui porta il male. E, soprattutto, tratta la storia di una grande amicizia, un legame di fratellanza e di cameratismo che unisce i due protagonisti dal primo all’ultimo momento anche nell’affrontare insieme il male, perché “non dobbiamo mai separarci, insieme siamo invincibili“. Sono una piccola e coesa “Band of Brothers” questa coppia di amici, nell’accezione più shakespeariana del termine, la stessa che porta lo spettatore a schierarsi immediatamente dalla loro parte e che si allarga a macchia d’olio, coinvolgendo, uno ad uno, tutti i personaggi del drama in cerca di giustizia.
Pieno periodo Covid-19. Kim Gun-woo (interpretato da Woo Do-hwan, la Spada Indistruttibile di The King Eternal Monarch e My Country) è un ragazzo di 25 anni, ex marine, boxer determinato nel tempo libero, capace di fare qualsiasi lavoro umile e manuale per aiutare la madre (Yoon Yu-seon, storica attrice di drama, vista anche in My Girlfriend Is a Gumiho, Weighlifting Fairy Kim Bok-joo, Tomorrow, Avvocata Woo e tanti altri), che gestisce un piccolo ristorante, ma che è piena di debiti. Gli autori ci fanno conoscere Gun-woo in modo molto abile alla fermata del bus, mentre ferma un ubriaco molesto dall’ingresso senza mascherina e difende il conducente dalle minacce: pochi momenti in cui Gun-woo evita tutte le mosse dell’ubriaco contro di lui e gli blocca le braccia, mentre si prodiga in continue scuse, per, poi, salire sul bus e glissare con umiltà gli applausi a lui indirizzati, e già il suo sorriso timido e i suoi occhi buoni ci entrano nel cuore, come raramente un personaggio riesce a fare. Poi, c’è Hong Woo-jin (interpretato da Lee Sang-yi, il second lead di Hometown Cha-Cha-Cha e Youth of May), con cui lo spettatore fa la conoscenza in modo poco convenzionale: guantoni, bite per proteggere i denti e spavalderia, si presenta sul ring come sfidante di un match contro Gun-woo e va direttamente al tappeto. Però, non servono parole per costruire legami che possono diventare perenni: al termine del match, Gun-woo e Woo-jin si conoscono, chiacchierano, si dividono il pranzo (in un posto economico), scoprono di essere stati entrambi marine, si confidano i propri problemi, le ansie, le delusioni della vita e i desideri e capiscono di essere quasi fratelli. L’uno calmo e di poche parole, ma saldi principi, l’altro estroverso e chiacchierone, ma dal cuore d’oro.
Quando Gun-woo si trova in difficoltà per il prestito che la madre ha contratto involontariamente con degli strozzini e viene picchiato, sfregiato e minacciato, sarà l’amico Woo-jin a risollevarlo e, insieme a lui, a cercare un modo per guadagnare i soldi del prestito. L’occasione si presenta con le sembianze di Choi Tae-ho (il monumentale Heo Jun-ho, visto in Designated Surviror: 60 Days e Kingdom, ma anche superbo cattivo in Why Her?), apparentemente un anziano e pacato libraio in sedia a rotelle, che cerca una guardia del corpo per protegge le nipote Hyun-ju (Kim Sae-ron, già apparsa da bimba in Fashion King) nelle sue investigazioni su una banda malvagia che inganna commercianti e strozzini con tassi di interesse inarrivabili. Solo che il signor Choi ha alle spalle un passato criminale, a capo di traffici loschi e di prestiti non autorizzati, ma contraddistinto da un suo codice etico, per cui i bisognosi hanno diritto a prestiti senza interesse (e, talvolta, anche senza alcuna restituzione, soprattutto quando si tratta di prestiti per motivi di salute). Naturalmente, la banda criminale a cui dà la caccia Hyun-ju, capeggiata dal perfido Kim Myeong-gil (Park Sung-woong, Snowdrop, Man To Man, Unlock My Boss), è anche la stessa che ha fatto del male alla famiglia di Gun-woo e, al tempo stesso, è legata al passato del signor Choi. Non solo, perché gli affari di Myeong-gil in tempi di pandemia sono andati così bene da ricattare politici e amministratori per ottenere le concessioni giuste a costruire un casinò in un hotel di lusso. L’unico ostacolo sembra rappresentato da Hong Min-beom (un grandissimo Choi Si-won dei Super Junior, già interprete in She Was Pretty e Work Later, Drink Now), chabeol erede della famiglia proprietaria degli hotel.
La ricerca sarà lunga e meticolosa, con momenti di adrenalina e suspence disseminati ovunque, attimi di gioia e di dolore che si mischiano tra loro, di sorrisi e di lacrime che vanno all’unisono, ma soprattutto di fratellanza e familiarità. In una società triste e sofferente, dove i forti sembrano aver prevaricato i più deboli, è proprio dal basso, dal cuore di due anonimi pugili, che parte la rivolta: “Quello che dico è che possiamo superare qualsiasi difficoltà con un cuore buono“, afferma il signor Choi alla sua piccola e scomposta famiglia elettiva per infondere loro coraggio e rispondere alle avversità, disegnando dei confini netti tra Bene e Male. E, d’altronde, Gun-woo sa già discernere cosa vuol dire agire per la giustizia, la lealtà e le persone amate e sa che i sogni si realizzano solo mettendo davanti la propria volontà e la propria passione e, soprattutto, imparando a non calpestare nessuno e mantenendo incorrotto il proprio cuore: “This is the kind of person I want to be. A person who shows that dreams can come true if you have a strong will and undying passion”.
Bloodhounds (사냥개들, Sanyanggaedeul) è un drama breve, ma molto intenso, ispirato al webtoon omonimo, scritto e illustrato da Jeong Chan e riadattato per la TV da Kim Joo-hwan, anche noto come Jason Kim, ovvero colui che ha creato Midnight Runners (e la meravigliosa amicizia/inimicizia tra Park Seo-joon e Kang Ha-neul). Sia in patria che all’estero ha riscosso un successo che forse non ci si aspettava (anche per la mancanza totale di romance e love story), una scelta felice che dà finalmente a due grandi attori come Woo Do-hwan e Lee Sang-yi un ruolo da mattatori liberi e che, al tempo stesso, usando il pretesto di un action-crime quasi ipnotico e ben sceneggiato anche con inserti humour, traccia una critica netta della società nel periodo durante la pandemia (ma anche post). La Seoul notturna e corrotta che fa da sfondo alla storia non è altro che lo scenario odierno, in cui ci siamo mossi e continuiamo a muoverci, dove spesso gli equilibri della società sono stati destabilizzati e una crisi economica silente e inaspettata, proprio perché connessa agli effetti di una pandemia difficile da debellare, ha creato profondi squilibri e una nuova larga fascia di povertà. In questo senso, Bloodhounds si è rivelato una delle storie più moderne e attuali raccontate finora dall’Hallyu coreano e una di quelle con meno cliché e meno fissità, oltre che con un coraggio narrativo che, in parte, lo avvicina al drama Taxi Driver. Unica pecca: l’uscita di scena un po’ affrettata e non prevista del personaggio di Lee Sae-ron, arrestata in guida in stato di ebbrezza durante le riprese e, quindi, sostituita in modo un po’ illogico nel cast. In compenso, il drama scorre celermente con un climax continuo, che ci avvicina sempre di più all’animo dei personaggi e alla loro sete di giustizia.
AVVERTENZE: non è una visione semplice, perché è corredata da molte scene violente, nonostante non ci sia alcuna apoteosi kitsch di sangue, né momenti macabri, visto che tutto è ben misurato e finalizzato.
Postilla: se adorate, come la sottoscritta, le bromance, una trattazione a parte merita anche l’amicizia tra Hwang Yang-jun (Lee Hae-young, già visto in The Glory) e Lee Doo-young (Ryu Soo-young, anche nel cast di Queen Maker), il braccio destro e il braccio sinistro del signor Choi o, meglio, i suoi due fidati “coltelli” che lo hanno accompagnato in tutta la sua parabola di vita a metà tra il criminale e il giustiziere. Pochi attimi di questi due che avrebbero bisogno già di una serie prequel a sé (ed io sarei la prima sponsor, in questo caso).
Consigliato: a chi cerca una storia, che non abbia nulla di romantico, ma molto di coraggio, lealtà e amicizia; a chi ha bisogno di eroi quasi della porta accanto, capaci di meravigliarsi e di commuoversi tra loro, mostrando le proprie debolezze in modo genuino; a chi sa che, alla fine, dopo tutto, i cattivi vengono sempre sconfitti ed è disposto anche a prendersi pugni in faccia per realizzare un mondo più equo e più giusto; a chi comprende cosa vuol dire per davvero essere fratelli anche se non di sangue e non tradisce mai i veri amici.
Captain-in-Freckles

4 pensieri riguardo “Bloodhounds (ovvero della lealtà e dell’amicizia)”