Start-Up (ovvero il coraggio di diventare il proprio sogno)

“Does My Dream Have to be Success? Can’t It Be a Person?”.

Se dovessi consigliare a qualcuno una serie ottimista, dove, in qualche modo, i buoni – perlopiù, piccoli e reietti nella società – vincono sempre per le loro capacità e la loro bravura, allora consiglierei Start-Up, nonostante abbia un nome che spinga ad aggiornare immediatamente il nostro Play Store dello smartphone o, ancora peggio, nonostante questo termine ci faccia pensare ad un metodo spesso spacciato per “facile” per accumulare denaro. E, in effetti, quella problematica economica c’è ed è anche piuttosto evidente, giacché da sempre il sogno dell’essere umano coincide con una certa sicurezza benestante. Però, non è questo il punto lanciato dal drama: arrivare a raggiungere l’upgrade economico è quasi un premio finale, come per i piccoli personaggi di Frank Capra che si mettono contro le grandi imprese, ma è il percorso che sta in mezzo ad assurgere la vera importanza, perché non si tratta solo di credere nei propri sogni, ma di diventare il proprio sogno e di rispondere, a testa alta, “io ci sono”, malgrado tutte le avversità e malgrado tutte le partenze negative. Ed è per questo motivo che sostengo che Start-Up sia un drama ottimista: un po’ slice-of-life, un po’ team-up, tanto romanzo di formazione con della rom-com disseminata qua e là, ma soprattutto ottimista, ovvero uno di quei prodotti da recuperare per assumere sicurezza in se stessi. Eppure quanto ho pianto. Sì, perché, signore e signori, piangere fa bene, è catartico ed escapista e non è detto che bisogna piangere solo quando si trova qualcosa di triste. Anzi, il più delle volte sarebbe necessario piangere quando si trova qualcosa di emozionante, mentre ci si scrolla di dosso la tristezza e l’inquietudine di innumerevoli delusioni. Un po’ come, passo passo, fanno i protagonisti di questa storia.

Il drama, per la verità, inizia molti anni prima, quando Seo Cheong-myung (interpretato da Kim Joo-hun, l’amato dottor Cha di DoDoSolSolLaLaSol e l’editore della protagonista in It’s Okay To Not Be Okay), stufo di sopportare continuamente derisioni e umiliazioni dal suo capo, si licenzia per inseguire il suo sogno di aprire una start-up. In risposta alla sua decisione, che avrebbe creato una grossa insicurezza economica in famiglia, la moglie Cha Ah-hyun (Song Seon-mi, che, poi, è anche la madre di Song Kang in Love Alarm), lo lascia e costringe le figlie a prendere una scelta tra lei e il padre: la figlia maggiore, In-jae, sempre bella e ammirata, decide di andare a vivere con la madre, che, col tempo, sposerà un milionario e la manderà a studiare negli USA; la minore, Dal-mi, la più attaccata agli affetti familiari e alle piccole cose, ma anche la più isolata nella società, decide di rimanere col padre e con la nonna (interpretata da Kim Hae-sook, già vista in Tomorrow e I Hear Your Voice). Quest’ultima, leggendo la disperazione della bambina che si sente sempre più sola, inventa per lei un amico immaginario che le scrive delle lunghe e intense lettere e, per portare a compimento il suo piano, chiede una mano a Han Ji-pyeong, un giovane e brillante liceale, che le ha chiesto ospitalità, dopo essere stato sfrattato, per limiti d’età raggiunti, dall’orfanotrofio. I due si impegnano molto per scrivere letterine che possano consolare e confortare la bambina e, più il tempo passa, più Ji-pyeong inizia, effettivamente, ad aprire se stesso, trovando nella scrittura di queste lettere uno specchio per la propria anima. Così, piano piano negli anni, mentre l’affezione di Ji-pyeong per Dal-mi cresce, la giovane Dal-mi si convince di amare il suo corrispondente. Solo che Ji-pyeong ha sempre scritto, celandosi dietro il nome fittizio di Nam Do-san, un piccolo genio matematico a cui i giornali tributavano onori all’epoca.

Passa il tempo, Dal-mi (ora interpretata da Bae Suzy di Vagabond) non è mai riuscita ad andare all’università e si barcamena tra tanti diversi lavori precari: nonostante sia brava e caparbia, nessuno le vuole fare un contratto a tempo indeterminato e, soprattutto, nessuno la vuole assumere per un posto più elevato, perché priva di laurea. Un giorno, ad un seminario gratuito di Sandbox (una sorta di immaginaria Sylicon Valley di Seoul), s’imbatte improvvisamente nella sorella maggiore (ora interpretata da Kang Han-na di Bloody Heart, Moon Lovers, Designated Survivor: 60 Days e Just Between Lovers) e per farle capire di aver fatto la scelta giusta e, quindi, di avere una vita realizzata, mente, dicendole di essere a capo di un progetto per una start-up e di essersi fidanzata, effettivamente, con il suo vecchio e ignoto amico di penna. Allo stesso seminario, però, è presente anche Ji-pyeong (magistralmente interpretato da Kim Seon-ho di Hometown Cha-Cha-Cha, che qui è impossibile non amare), diventato ora uno degli uomini più ricchi del paese, dirigente alla Sand-Box, CEO, investitor manager, stakeholder, ma anche uomo solitario e arroccato nella sua riservatezza. Riconosciuta la sua vecchia corrispondente, ma deciso a mantenere l’inganno, insieme alla nonna decide di contattare il vero Do-san per “educarlo” a diventare l’uomo dei sogni di Dal-mi e di aiutarla nel suo progetto della start-up. Solo che Do-san (ora interpretato da Nam Joo-hyuk, protagonista di 25 21 e The Bride of Habaek, ma anche visto in Moon Lovers), da piccolo genietto alle Olimpiadi di matematica, è diventato un ingegnere nerd e sulle nuvole che vive e lavora attaccato ad un computer, senza muoversi anche per 24 ore di fila, e si circonda di amici degni da The Big Bang Theory: Lee Chul-san (Yoo Su-bin, il commilitone nordcoreano appassionato di drama in Crash landing On You) e Kim Yong-san (interpretato da Kim Do-wan, il giornalista in Hellbound), i cui siparietti da soli dovrebbero valere un drama a sé, soprattutto quando sono accompagnati dall’algida graphic designer Jeong Sa-ha (interpretata da Stephanie Lee, vista in Busted!), che Chul-san tenta di corteggiare invano. In effetti, anche Do-san e i suoi amici condividono il medesimo progetto di fondare una start-up e, anche loro, come Dal-mi vogliono entrare nel finanziamento per giovani imprenditori di Sandbox, pronti a creare una squadra a cui Dal-mi infonde coraggio, speranza e determinazione per realizzare un sogno in comune.

“C‘è chi dice che io debba sognare soldi e successo? E se il mio sogno fosse una persona?“, obietta Do-san, che, nel suo ruolo imposto di vecchio confidente di Dal-mi, inizia a provare davvero qualcosa per lei e ad uscire dalle sue paure e dai suoi timori, fardelli che si portava dall’infanzia, come quando sbagliava appositamente i compiti per non essere marchiato come un genio e rimanere con i propri coetanei e, forse, anche per autopunirsi, reo di aver vinto immeritatamente le Olimpiadi di matematica contro persone più grandi e più preparate. Dal-mi, al suo contrario, è partita senza alcuna base e senza nessuno che credesse in lei, ha sempre creduto nei propri sogni “perché, alla fine, a pregare tanto, le cose si avverano“. E Dal-mi è brava a far avverare le cose, anche quando tutto sembra essere contrario, perché, per la prima volta, nella sua vita supporta e si sente supportata, è pronta a donare amore e brilla proprio perché sa che sta ricevendo amore ed è pronta a perdonare per una lacrima sincera, che sia Do-san e Ji-pyeong, che le hanno mentito, o sua sorella In-jae, che finge di non considerarla solo perché è una di quelle persone che “si affeziona di nascosto” (come direbbe Lucy Van Pelt).

Ovviamente, non posso e non voglio rivelarvi il finale, anche perché Start-Up è un drama che parte lento, per ingranare di diverse velocità all’interno degli episodi, facendo crescere piano piano i personaggi, in concomitanza con gli eventi. Una cosa, però, voglio anticipare, ovvero la meraviglia del personaggio di Ji-pyeong, perché, lo scrivo senza alcuna vergogna, è alle sue riflessioni e ai suoi tormenti che sono state affidate le mie lacrime. Eppure, è bene chiarirlo subito: Ji-pyeong è e rimarrà sempre il vero second lead, senza fare alcuno spoiler, perché si capisce la sua condizione sin da subito, dal suo primissimo incontro con Dal-mi fino ad andare avanti. Ogni volta che mi è capitato di sentire rifiuti per la visione di questo drama perché ci si è spoilerati che Ji-pyeong (e, quindi l’amato Kim Seon-ho, che ha una capacità interpretativa straordinaria e recita come se fosse a teatro, senza bisogno di spalle, e, non a caso, ha pure vinto il Premio Baeksang per la Popolarità proprio per questo ruolo) non è il vero first lead, mi viene da ridere, perché lo spettatore capisce subito che non potrà mai sostituire Do-san nel cuore di Dal-mi in nessun caso, anche quando si scoprirà il vero autore delle lettere. Come dice Dal-mi, lui è il “sogno” e il “passato”, ovvero quel conforto di cui aveva bisogno da bambina, mentre Do-san è la “realtà”, il “presente” e il “futuro”, ovvero colui che crede in lei ed è ricambiato in una reciproca e coesa unione dove l’uno scommette nelle capacità dell’altro e non lo mette mai in dubbio, perché stima e amore si fondono insieme in un unicum. Eppure, Ji-pyeong, che agli occhi di Dal-mi rimane sempre il Signor Han, è uno dei personaggi più belli e meglio caratterizzati nei drama: è solo da sempre e crede quasi di non avere diritto alla felicità, che carpisce in attimi rubati da sorrisi altrui; vorrebbe dimostrare di essere cattivo e spietato e, invece, continua a fare del bene, ma in modo naturale e senza nemmeno farlo notare; è innamorato di Dal-mi, ma non si fa mai avanti, perché si rende conto che quello che ama è l’idea stessa che il suo legame epistolare aveva stabilito con Dal-mi, come se fosse parte della sua famiglia; tenta di dimostrarsi freddo e accigliato, scostante col mondo e felice di essere privo di amici, e, invece, è desideroso d’affetto e di comprensione e non riesce ad ammetterlo (“I’m not a good boy. Mrs. Choi, you completely misjudged me. I’m a jerk who hurts people with harsh words. I pretend to be the smartest in the world, but in reality, I’m just an idiot who knows nothing. I’m not a good boy” – la sua confessione davanti alla nonna di Dal-mi, che, alla fine, è diventata per davvero la sua famiglia). Insomma, per parafrasare una celebre scena di Edward Mani di Forbice, nonostante le apparenze, hanno collocato un cuore di marzapane nel petto di Ji-pyeong, che va all’unisono con il cuore dello spettatore.

Però, come ho esordito, Start-Up è anche un romanzo di formazione. Ma non mi riferisco solo alla formazione di Dal-mi e di Do-san (in realtà, piuttosto scontata e automatica, persino nelle crisi e nell’allontanamento inspiegabile per ben quattro anni, perché, spoilerone, gli ingegneri folli fanno proprio così, come se gli anni solari fossero quelli di Dungeons&Dragons). Per me, che in questo drama ho preferito i personaggi secondari a quelli principali, la vera formazione è quella di In-jae, la sorella maggiore con cui Dal-mi è perennemente in competizione (che Kang Han-na interpreta davvero in modo straordinario nella sua finta fissità). Lo spettatore la guarda e, immediatamente, la odia, vedendola materialista, attaccata ai soldi e ai beni fisici, fredda e priva di un sorriso, decisa a troncare dalla sua vita tutta quella parte affettiva che, invece, popola la dimensione di Dal-mi. E, in effetti, è vero, perché In-jae è una carrierista spietata e cinica, che non si rilassa mai, presa dall’obiettivo non tanto di fare soldi e successo, ma di diventare l’emblema del successo, di essere, insomma, il proprio sogno, senza dare spazio ad alcun legame, familiare o d’amicizia, e senza nemmeno entrare nelle grazie dell’affetto altrui, come Ji-pyeong. In-jae è una macchina da guerra e, nel valutare il suo compassato distacco, nessuno riesce a capire quanto, in realtà, sia uno dei personaggi più sofferenti, abituata ad incassare e a reprimere le proprie emozioni e i propri sentimenti per, poi, finalmente, lasciarsi andare, in un pianto liberatorio, che la coinvolge nel profondo, come aprire di colpo il vaso di Pandora e scoperchiare tutte le sofferenze e i dolori che ha subito dopo la sua scelta e tutti i suoi rimorsi e i suoi sensi di colpa, che l’hanno portata a lottare per dimostrare chi è.

Start-up (스타트업) è un drama che ha ricevuto recensioni e apprezzamenti misti: da un parte, c’è chi l’ha adorato in ogni suo minimo particolare, ivi compresi i discorsi economici sulle attività del CEO o sul malware di sistema; dall’altra parte, c’è chi l’ha odiato, reputandolo noioso, forse anche per la parte troppo “office”, e spesso fermandosi ai primi episodi. Io mi colloco a metà, perché durante la visione sono stata pervasa da sentimenti diversificati: ho adorato i primi episodi e ho versato più lacrime del dovuto, ma, di tanto in tanto, ero infastidita da numerosi comportamenti di alcuni personaggi (in primis, dei principali) per essere, alla fine, generalmente soddisfatta del finale. Poi, a distanza di molto tempo, ci ho ripensato sopra e ho compreso che è semplicemente uno spaccato di vita reale, con tutti i sali-e-scendi che possono esistere nella vita stessa, con le tristezze, le incomprensioni, le aspirazioni e i desideri spesso irrealizzati (o irrealizzabili), i momenti di dolcezza, i sorrisi, le amicizie, ma anche i litigi, le sofferenze interiori che nessuno riesce a capire e gli affetti che sono capaci di sostenerti, gli attimi di cordialità di gruppo e i lunghi silenzi di solitudine, le malattie, le emozioni, la voglia di oscurarsi sotto una coperta per tutta la settimana e quella di uscire sotto la luce del sole per affermare se stessi, i pianti e le risate, la caparbietà testarda e ostinata, l’esigenza di ascoltare l’opinione altrui, la stima, l’antipatia… Alla fine, siamo fatti così, un coacervo di dissonanze e di ossimori, speciali nella nostra mancanza di specialità, originali per noi stessi, ognuno diverso dall’altro, senza mai capire come si agirà in futuro, ma tutti fermamente convinti che il primo sogno siamo noi stessi.

Consigliato: a tutti, anche perché fornisce sempre opinioni finali discordanti, come è giusto che sia, e ho bisogno di confrontarmi in merito; ai fan di Bae Suzy e a quelli di Nam Joo-hyuk, ma soprattutto ai fan di Kim Seon-ho, perché non importa essere un second lead, quando sei il personaggio più straordinario che esista; a chi vuole piangere e ridere al tempo stesso, ha sogni nel cassetto e fa castelli in aria e spesso senza alcuna coincidenza reciproca; e, infine, a chi ha amato la colonna sonora di Itaewon Class, perché anche qui Gaho ci offre la bellissima OST di Running , che già da sola vale il recupero.

Piccola postilla: il titolo, Start-Up appunto, contiene in sé lo spoiler della trama, non tanto perché i protagonisti vogliono fondare una start-up, quando perché “start” è l’inizio e “up” rappresenta la crescita.

Altra piccola postilla: ad un certo punto, nel ruolo della chiaroveggente, un po’ truffatrice e un po’ psicologa, che in un ristorante legge la mano uno per uno a tutti i protagonisti, compare Lee Bo-young, la bravissima protagonista di I Hear Your Voice, qui in un cameo d’eccezione.

Captain-in-Freckles