“Homo sum et quod humanum mihi non alienum est”.
Terenzio

Titolo originale: 오징어 게임 3; Ojingeo Game 3
Scritto, diretto e prodotto da: Hwang Dong-hyuk
Cast: Lee Jung-jae, Lee Byung-hun, Wi Ha-joon, Yim Si-wan, Kang Ha-neul, Park Gyu-young, Park Sung-hoon, Yang Dong-geun, Kang Ae-shim, Jo Yu-ri, Lee David, Roh Jae-won, Lee Jin-wook, Song Young-chang, Chae Gook-hee, Park Hae-soon, Jun Suk-ho, Oh Dal-su
Genere: drama / thriller / survival /dystopian
Corea del Sud, 2025 – k-drama – 6 episodi
Quando ero al liceo, avevamo scritto questa frase di Terenzio in grande su un foglio attaccato alla parete come un poster, non per grande profondità del suo significato intrinseco o per puro amore nei confronti di uno dei più grandi commediografi della commedia antica latina: semplicemente perché la professoressa di latino e greco continuava sempre a chiedere questa citazione durante le interrogazioni, in contrapposizione alla più nota “Homo homini lupus” di Plauto per tracciare una linea netta tra i due grandi autori. Solo che la frase di Plauto era più automatica da ricordare, quasi derivante da un ragionamento normale su cos’è l’umanità (e, del resto, anche Thomas Hobbes sembrava darci ragione in merito). Al contrario, quella frase di Terenzio nascondeva un trabocchetto che a sedici anni non puoi comprendere del tutto, ma che inizi solo a scoprire crescendo e accumulando lividi sull’anima. L’umanità, quella vera, quella che non è da demonizzare, pur non avendo buone qualità, quella che integra il male più profondo, ma è capace di grande gentilezza e di atti umanamente eroici, quella imperfetta e debole, eppure sempre l’umanità che ci contraddistingue tutti, senza esitazioni né dubbi.
Per questo motivo, anche se siete qui, perché sopravvissuti alla visione di “Squid Game 1” e “Squid Game 2“, non scriverò alcuna recensione dettagliata degli avvenimenti accaduti nel drama, non tanto per preservare dall’incubo degli spoiler (perché, con serie televisive simili, gli spoiler iniziano già un minuto dopo la messa in onda), ma perché, a raccontare dettagli di trama, si rischia di perdersi in mezzo ai giochi e di non comprendere la riflessione sottostante. Pertanto, mi sia concessa una recensione/non-recensione, più un commentario sulla condizione umana ritratta.
“Noi non siamo cavalli. Siamo umani, e gli esseri umani…”
In questo modo, con una frase volutamente monca, che apre ad un ragionamento molto più profondo e complesso, Hwang Dong-hyuk, showrunner di “Squid Game” dal 2021, ha voluto concludere una saga televisiva, che ha alimentato in questi ultimi quattro anni tanti e innumerevoli dibattiti (dalla necessità della violenza, ai bambini che ne riproducevano i giochi, dalla critica sociale, all’indagine su eventuali punti scaturenti del dramma nella storia coreana), ha fortificato il predominio di Netflix e ha fatto conoscere l’abilità di registi e sceneggiatori coreani tra le serie televisive del mondo (spoiler: come avvertimento nei confronti di chi si è avvicinato così ai k-drama e non riconosce un vero raffronto con altri prodotti, anche in Corea “Squid Game” è stato un caso a sé e la modalità di condurre un k-drama NON è quella presente in questo show). “Squid Game” è stato sicuramente epocale, sin dal primo istante, da quel teaser ansiogeno caricato a settembre del 2021 su Netflix e da quello shock provato da milioni di spettatori, ignari del fatto che i giocatori venissero uccisi durante un banale “Un, due, tre, stella” contato da una gigantesca bambola meccanica (perché, con gli anni, tutti sapevamo cosa si nascondeva nella serie, ma, fidatevi da chi l’ha vista tra i primi, è stato traumatico all’inizio). Tra il 2024 e il 2025, poi, l’apoteosi di questa serie ha raggiunti molti più spettatori del previsto, anche grazie ad un’abilissima manovra di marketing che l’ha portata ovunque, dalle installazioni in alcune città nel mondo (così, ad esempio, a Venezia), ai giochi inaugurati a suo nome, alla presenza del cast ad eventi e a fiere del fumetto, ad ulteriori show creati appositamente da Netflix.
Ed è forse per questo motivo che, più mi avvicinavo alla fase finale, più in me saliva un’ansia e un malessere senza pari, diviso tra l’amore che ho avuto subito per la prima stagione e l’aspettativa per le altre due e condito dalla consapevolezza che avrei assistito ad una totale rovina dell’intento antropologico e sociale celato all’interno. In effetti, questa mia ansia è continuata per tutta la visione della seconda stagione e per quella della terza, fino agli ultimi minuti, a quella frase e a quel finale tragico che solo un antieroe come Seong Gi-hun (il numero 456) poteva meritare, riportando al centro il concetto di umanità e spingendo lo spettatore a riflettere su tutto quello che ha visto in precedenza.
Perché Seong Gi-hun (interpretato da Lee Jung-jae di “Chief of Staff” e altro) è assolutamente e banalmente umano, come potremmo esserlo chiunque e la terza stagione è stata volutamente scritta per farci prendere le distanza da una sua raffigurazione idealizzata di eroe e, al tempo stesso, avvicinarci di più alla sua empatia. Gi-hun è un perdente all’interno della società, non ha saputo costruirsi un futuro, né trattenere soldi o famiglia, ma ha sempre dimostrato di comprendere le sofferenze dei deboli, perché lui stesso ne fa parte. Ed è per questo motivo che trascende facilmente da quello che deve o non deve fare: razionalmente, sarei voluta essere lì con lui per dirgli che l’assalto alla dirigenza era qualcosa di inutile e di impossibile e che, proprio perché armati, avrebbe condotto alla strage di tante persone; avrei voluto avvisarlo che, prima di prendere una decisione simile, bisogna contare le forze e, quindi, anche i voti, perché, accettando la perdita di molte vite, sarebbe il caso di non soffrirne solo nel proprio schieramento; lo avrei rassicurato che esistevano altri modi per far saltare il banco e vincere, nonostante non fossero meno crudeli. Ma, forse, alla fine, anch’io in quel frangente avrei potuto prendere le sue stesse decisioni, trascinato dall’ira furiosa nei confronti degli organizzatori, dalla collera cieca per chi ha tradito il piano, nonostante il piano in sé fosse già un fallimento, dalla mancata accettazione della sconfitta e dal senso di colpa, dalla sorda depressione che isola dal mondo e, infine, dal sentimento di compassione ed empatia nei confronti di chi deve proteggere. Tutto questo è Seong Gi-hun e in questo coacervo non stanno solo le azioni positive, che più ci hanno fatto avvicinare a lui, ma anche le azioni negative e le crudeltà (spoiler: la morte di Kang Dae-ho ne è un esempio lampante), perché Seong Gi-hun non è un eroe perfetto da romanzo, ma è solo un essere umano con tutti i suoi difetti, che si arrabatta per risolvere una situazione più grande di lui, fino a sprofondarne.
Ma è umano anche Lee Myung-gi, il numero 333 (interpretato da Im Si-wan di “Boyhood“, “Summer Strike“, “Run On“, “Misaeng” e “Strangers from Hell“), un personaggio che divide sin dal suo primo ingresso tra la voglia di proteggerlo, quando è costantemente minacciato dal bullismo imperante all’interno del gioco, e il senso di fastidio che riesce a causare nello spettatore già dal primo sguardo, un altro pezzo di umanità, pur nelle sue angolazioni più sottilmente atroci e opportuniste, l’umanità che vuole sopravvivere ad ogni costo e che, per questo motivo, travolge gli altri, anche coloro che dovrebbe amare, racchiusa in un bozzolo di egoismo salvifico, perché convinta che nessuno potrà mai aiutarli.
Ed è umano pure Kang Sae-ho, il numero 388 (interpretato da Kang ha-neul di “Misaeng” e “When the Camellia Blooms“), che è in conflitto con se stesso, prima ancora che con il mondo, diviso tra ciò che vorrebbe essere (il suo falso tatuaggio della marina ne è una prova) e che vorrebbe dimostrare al mondo e ciò che nella realtà è, tra il desiderio di eroismo e coraggio e il timore di vivere, la falsa estroversione che lo inserisce perfetto e ridente in società e il suo ragionamento introflesso che lo porta a nascondere la sua vera identità. Personalmente, è uno dei personaggi che, col tempo, sono riuscita ad amare di più e che avrei avuto voglia di abbracciare per rassicurarlo e aiutarlo.
Sono umane le meravigliose Cho Hyun-ju, il numero 120 (interpretata da Park Sung-hoon di “The Glory” e “Queen of Tears“, che credo abbia fatto qui il lavoro più eccellente della sua carriera) e Kim Jun-hee, il numero 222 (interpretata da Jo Yu-ri), due ragazze che si trovano già ai margini di una società che non le capisce e che si rifiuta di accettarle, aborrendo la prima per la sua transizione di genere e la seconda per la sua completa solitudine e la sua voglia di dare la vita ad un bambino, due donne che sono riuscite a far valersi proprio nelle peculiarità per cui la società le metteva al bando e che maturano nel piccolo gruppo di affetti che riescono a crearsi all’interno del gioco (una forza istantanea, che, però, nella crudeltà in cui siamo immersi, si rivela anche una debolezza). Raramente si piange così tanto nell’assistere ad un’amicizia vera e incontaminata come la loro, rari casi di persone che, pur nelle brutture a cui si trovano ad assistere, ne riemergono con un’anima pura, mantenendo intatto il vero senso di umanità, costituito dalla comprensione e dalla protezione reciproca.
Sono drammaticamente umani Park Yong-sik, il numero 007 (interpretato da yang Dong-geun), e Jang Geum-ja, il numero 149 (interpretata dalla meravigliosa Kang Ae-shin, i cui riferimenti ad altri lavori non si contano nemmeno), figlio ultraquarantenne, che ha sempre vissuto come un perdente e un inetto, e madre afflitta da un senso interiore di sconfitta e di umiliazione, che cela con la sua capacità di comprendere il prossimo e di aiutarlo (capacità che le viene riconosciuta da tutti, anche da Seong Gi-hun). La loro parentesi è una delle più tragiche all’interno del drama (e, in particolare, della terza stagione), iniziata quasi con toni da commedia e conclusasi come su un teatro shakespeariano nell’espiazione di un dolore di cui il mondo li ha condannati ancora prima di agire. Il monologo di Jang Geum-ja è una delle parti recitative più belle in assoluto, non solo del drama, ma in generale di tutte le produzioni televisive.
Ed è tremendamente umana anche Kang No-eul (interpretata da Park Gyu-young di “Sweet Home” e “It’s Okay to Not be Okay“), la guardia rosa crudele e spietata, che anestetizza il suo dolore e il senso di colpa per aver abbandonato il figlio con un suo concetto travisato di umanità; così come è umano Park Gyeong-seok, il numero 246 (interpretato da Lee Jin-wook di “Beyond the Bar” e “Welcome to Wedding Hells“), padre disperato, solitario e sofferente, che, forse perché proprio vissuto sempre in estrema povertà, cerca di trascendere le divisioni e di richiamarsi ad una condivisione umana; così come sono umani Im Jeong-dae, il numero 100 (interpretato da Song Yong-chang), forse uno dei personaggi più odiati, opportunista e cinico anche nella fase implorante, Seon-nyeo anche nota come la Sciamana, il numero 044 (interpretata da Chae Gook-hee), manipolatrice delle fedi e delle credenze altrui per la propria sopravvivenza, ma vittima del un sistema che ha perso la fede, Nam-gyu, il numero 124 (interpretato da Roh Jae-won di “Daily Dose of Sunshine“), perfetto nella sua schizofrenica sociopatia e umano nella cattiveria più allucinante, Min-su (interpretato da David Lee di “Start-up“), caduto nel baratro di un senso di colpa costante.
Sono umani nella loro barca alla ricerca dell’isola introvabile anche Hwang Jun-ho (interpretato da Wi Ha-joon di “Romance is a Bonus Book” e “Bad and Crazy“), ostinato e determinato nel portare avanti la sua missione, ma così ciecamente testardo nel negare un’evidenza lampante che colpirebbe i suoi ricordi e i suoi affetti, e Choi Woo-seok (interpretato da Jun Suk-ho di “Misaeng” e “Strong Woman Do Bong-soon“), testimone del fatto che un criminale può avere i più grandi slanci di generosità e di altruismo e una gradazione di valori superiore a quella di coloro che sono valutati onesti dalla società. Ed è umano anche il capitano Park Yeong-gil (interpretato da Oh Dal-su), che porta avanti una concezione distorta di gratitudine, annegando con essa persino il valore della vita umana.
Infine, è così drammaticamente umano il Front Man (interpretato in modo imperioso da Lee Byung-hun di “Mr. Sunshine“, “Our Blues“, “Concrete Utopia“, etc), nella sua perfetta scissione di personalità, che lo ha reso capace di un bipolarismo assoluto, vestitosi volontariamente della maschera del cattivo per punire una società che ha fatto soffrire i suoi familiari, accettando il male perché convinto che il bene lo avrebbe annientato.
Nessuno di loro è un eroe: non era intenzione dello showrunner costruire eroi o dividere l’umanità in buoni e cattivi e, qualsiasi interpretazione sia stata data in tutti questi anni di conduzione di “Squid Game“, il suo scopo non è mai stato quello di costruire un percorso ad ostacoli per punire i cattivi e far emergere solo i buoni. Forse perché la società non è così. Tutt’altro. La società è capace di grandi slanci generosi, di altruismi e di bontà interiore, ma è anche crudele, cupa e cinica sotto ogni aspetto e, forse, per parafrasare una frase utilizzata da Mikasa Ackerman in “Attack on Giant“, la bellezza dell’umanità sta proprio in questa dimidiatezza, in questa impossibilità di essere totalmente buoni e totalmente cattivi, nella grandezza di trovare l’umanità in un mondo crudele.
Qualsiasi cosa si possa dire su “Squid Game” e qualsiasi conclusione di voglia dare per aprire eventuali capitoli a parte (che siano prequel, sequel o sidequel o che sia l’inizio di un franchise mondiale che tempo e di cui non avrò voglia di occuparmi) e nonostante forse ci si aspettava qualcosa di più dal suo finale (perché le nostre aspettative, dopo tutti questi anni, erano alte e pretenziose e sei episodi di conclusione non sembravano abbastanza), la sua crudeltà ci ha messo di fronte alla domanda più angosciante che l’uomo possa porsi, quella di essere messi davanti al baratro del proprio inconscio, un pozzo nero di emozioni, che si liberano talvolta casualmente, come reazione agli stimoli del mondo, e comprendere la propria brutalità interiore. Allora, già solo di questo bisogna ringraziare Hwang Dong-hyuk: siamo finiti nel sottosuolo dostoevskjiano e ne siamo riemersi, consci di aver contezza di cosa ogni umano è capace, ma anche consci del fatto che nessuno è dissimile da quei personaggi visti nel drama.
Perché gli esseri umani sono così: un baratro di cattiveria, ma, in fondo a quel baratro, è possibile trovare la luce.
Laura
Come suona la recensione?
