«Legge i poeti surrealisti e non capisce niente. Un uomo pacifico e solitario, sull’orlo della morte. Immagini, ferite. Queste sono le cose che vede. E poi le immagini a poco a poco si vanno diluendo, come il sole che tramonta, e rimangono solo le ferite. Un poeta minore scompare mentre aspetta un visto per il Nuovo Mondo. Un poeta minore scompare senza lasciare tracce mentre dispera arenato in un paese qualsiasi della costa francese. Non ci sono indagini. Non c’è cadavere».
(Roberto Bolaño , “Ultimi crepuscoli sulla terra“)

Titolo originale: 地球最后的夜晚, Dìqiú zuìhòu de yèwǎn
Scritto e diretto da Bi Gan
Cast: Huang Jue, Tang Wei, Sylvia Chang, Lee Hong-chi, Chloe Maayan, Bi Yan-min, Liang Kai, Xie Lixun, Long Zhezhi
Film – Cina – 2018
Genere: mystery, romantico, onirico
Prendete una pellicola di Tarkovsky, aggiungete la fotografia e l’estetica anche nella palette di colori di Wong Kar-wai, il voice over sussurrato della Nouvelle Vague francese, il sottosuolo onirico di David Lynch. Poi, inserite quei gangster tristi e melanconici di Patrick Modiano, il viaggio surreale e pessimista di Louis-Ferdinand Céline e l’infrarealismo dadaista di Roberto Bolaño. Infine, inseritelo in un quadro di Marc Chagal, dove i personaggi sono sospesi a metà tra terra e cielo e guardatelo attraverso un caleidoscopio colorato, che compone e scompone i frammenti per crearne di nuovi e che, al tempo stesso, può trasformarsi in un filtro tridimensionale della realtà, ma che sa parlare con poesia.
Spesso al mattino, quando ci si sveglia, si ha la consapevolezza di aver fatto sogni strani, come un incastro di realtà diversificate in ricordi mai vissuti, così complicati da narrare, come distanti dalla memoria, anche se impressi in singole immagini vivide. Ed è proprio questa la sensazione che lascia la visione di una pellicola di Bi Gan e, in particolare, “Un lungo viaggio nella notte“, film che ha quasi ipnotizzato il pubblico di Cannes nel 2018 nella sezione Un Certain Regard, rimasto incantato da una narrazione che affronta tre piani diversi (quello della realtà, quello della memoria e quello del sogno) e un registro che mescola il parlato colloquiale, il discorso indiretto libero, la confessione dell’inconscio e la riflessione. Il titolo stesso del film, infatti, che, nel titolo internazionale, “Long Day’s Journey into Night“, suona come l’opera omonima di Eugene O’Neill, dove realtà e psicoanalisi si mescolano sul palco teatrale, in cinese (地球最后的夜晚) ricalca il titolo del racconto di Roberto Bolaño con cui si è iniziata questa recensione, “Ultimi crepuscoli sulla terra“, introducendo alla dimensione onirica da fine del mondo, in quella twilight zone in cui i personaggi di Bi Gan sono immersi e dove finzione e realtà si confondono, senza che ci sia bisogno di capire cosa siano. Come nel cinema stesso, vera metafora nella sua caratteristica metateatrale del momento in cui il sogno entra prepotentemente nella realtà contingente con la sua capacità di salvare il ricordo e l’immaginazione.
Prima di proseguire, si avverte che è difficile riassumere la trama del film, se non perdendosi nei flussi di coscienza continui del protagonista. E, pertanto, sarà doveroso viaggiare in questi flussi, nel ripercorrere gli eventi.
Ritorno a Kaili
Anno imprecisato successivo al 2000 (forse il 2012?), in una zona periferica della Cina a metà tra tradizione rurale e aspirazione alla moderna urbanizzazione, che potrebbe sembrare l’ultimo confine del mondo, sia dal punto di vista temporale che spaziale. Luo Hongwu (interpretato da Huang Jue, attore feticcio di Bi Gan, che lo ha scelto anche per “Resurrection“) torna nella sua città natale, Kaili, per la morte dell’anziano padre. Mentre si occupa di svuotare la casa e il ristorante del padre, trova appeso a una parete come se sovrastasse un vecchio orologio rotto davanti al quale il padre era abituato a sedersi. Al suo interno, vi è una vecchia foto con un numero di telefono di un’utenza irraggiungibile, forse qualcosa dimenticato dalla memoria del padre. Eppure quella vecchia foto diventa per Luo una madeleine proustiana, riportandolo nel gorgo di ricordi sospesi: rinviene alla memoria di Luo sua madre, che, tanti anni prima, aveva abbandonato senza motivo la famiglia, senza più farvi ritorno; e, poi, torna alla sua mente una donna, conosciuta dodici anni prima per una serie di casi fortuiti, una donna di cui ignora tutto, il nome, l’età, la storia personale, ma che è rimasta nella sua anima, perché l’unico vero amore.
In realtà, come racconta Luo Hongwu, rivolgendosi allo spettatore come una confessione, la colpa di tutto ciò è di Randagio, perché da lui sono iniziati i problemi della sua vita e, a causa sua, sono successi tanti eventi ancora inspiegabili. Anche perché è proprio per Randagio se, anni prima, Luo Hongwuo è tornato a Kaili.
Randagio era un ragazzo scapestrato, vecchio amico di infanzia che la vita aveva portato su strade pericolose, costretto ad indebitarsi e a lavorare per conto di criminali. Un giorno, aveva annunciato all’amico di aver trovato un ottimo affare, vendendo un quantitativo di mele per il boss locale, Zuo, ma di aver bisogno del suo aiuto. Il tempo, la volontà di restare lontano dalla sua città o, forse, quell’eterno senso di oblio che da sempre aveva preso a condizionargli la vita avevano portato Luo Hongwuo a dimenticare di tornare per dare supporto a Randagio, venendo richiamato solo successivamente dalla notizia della morte improvvisa del suo amico, ucciso dai criminali intorno a Zuo. Sul fondo del furgono di mele, solo una pistola, rimasta celata, indicava a Luo Hongwuo il cammino da seguire: abbandonare la vecchia vita tranquilla, entrare nel sottobosco criminale come manager delle case da gioco e infiltrarsi per vendicare la morte dell’amico. Ancora una volta Kaili lo tiene imprigionato, condizionandone il futuro.
La donna misteriosa
Passa il tempo, Luo Hongwuo fa carriera e riesce ad avvicinarsi al giro di Zuo. Un giorno, sul treno, rintraccia la fidanzata del boss e le si avvicina per minacciarla e incastrare, così, l’assassino dell’amico. Wan Qiwen (interpretata da una meravigliosa Tang Wei di “Decision to Leave” e “Wonderland“), che indossa perfettamente il nome di una diva del cinema, uno sguardo triste e melanconico, un abito verde cupo e un trucco sbavato, non mostra avere paura della minaccia e guarda dritto negli occhi Luo Hongwuo per farsi spiegare cosa succede. Si tratta solo di un attimo, ma qualcosa nel volto di Wan Qiwen richiama a Luo Hongwuo il volto della madre, che non riesce più a ricordare, anche lei con quel trucco sbavato e la tristezza negli occhi.
Ed è così che Luo Hongwuo capisce di essere innamorato di quella donna misteriosa, legato a lei da un sentimento profondo e ineguagliabile, che non ha bisogno di parole e grandi gesti e rende quegli attimi insieme lunghi quanto un’eternità. I due iniziano ad incontrarsi e a parlare, senza dirsi nulla in particolare delle proprie vite, ma addentrandosi in discorsi più elevati, discorrendo della vita e della morte, della finzione e della realtà, della tristezza che riesce a stringere il cuore in una morsa e della gioia della solitudine, dell’importanza di sognare e di quel funzionamento strano e incomprensibile della memoria.
“La differenza tra il cinema e la memoria è che il cinema è sempre falso“. La memoria, invece, non mente e, anche se i ricordi, talvolta, non riemergono in modo chiaro, ma attraverso piccole insenature dell’inconscio, sanno sempre cosa intendono comunicare.
Luo Hongwuo si accorda con Wan Qiwen per uccidere il criminale Zuo, una volta che questi si reca al cinema, proprio perché nel luogo della finzione nessuno avrebbe sentito il colpo di pistola e si sarebbe accorto della morte di Zuo, quasi come se il cinema stesso ingoiasse anche la realtà intorno, svuotandola completamente.
Wan Qiwen, che non crede nella finzione, parla sempre di un libro verde, un’antica leggenda che ha letto, scritta come una poesia, e che parla del vero amore, quello eterno e puro dei protagonisti del suo libro, che abitavano una casa che poteva ruotare grazie al loro amore. Quando Zuo muore, sparisce improvvisamente, lasciando a Luo Hongwuo solo quel libro verde come ricordo, segno tangibile della sua presenza e forse promessa di un suo ritorno.
La ricerca della memoria
“Ogni volta che credevo di averla dimenticata sognavo nuovamente di lei”.
Dopo il funerale del padre, Luo Hongwuo ripensa a quel tempo breve e fugace (“Non è sempre così effimero il tempo degli umani?“) con Wan Qiwen e, nonostante non sappia nulla di reale di quella donna, decide di cercarla, trasformandosi in uno di quei “detective selvaggi” del realismo magico di Bolano e cercando di unire i piani di passato e presente in un’unica realtà, dove la finzione e il sogno possono essere integrati senza timore come chiave di lettura, unici momenti in cui il tempo perde la caratteristica di scorrere per diventare semplicemente istante. Indaga, cerca, vaga in un sottobosco fatto di piccoli criminali e prostitute stanche e invecchiate, di ricordi passati cristallizzati nel presente, dove incontra la madre di Randagio, che si è tinta i capelli di rosso, e imprecisate macchiette, che sanno già di essere piccoli caratteristi della vita, fino a trovare una detenuta, vecchia amica di Wan Qiwen, che gli racconta di quando erano entrambe giovani ladruncole nelle case e di quando si erano imbattute in quel libro verde, che Wan Qiwen si era ripromesso di donare solo alla persona amata. “Dovevi significare molto per lei, se ti ha lasciato il suo libro“.
Infine, Luo Hongwo riesce ad arrivare alla stanza occupata da Wan Qiwen tempo prima e a parlare con l’uomo che l’ha sposata per, poi, perderla, seguendo la scia della voce illusoria di Wan Qiwen, diventata cantante nei locali notturni. Entra in un vecchio cinema, gestito da una vecchia prostituta, e aspetta l’arrivo delle cantanti, tra cui è certo di trovare Wan Qiwen. Indossa gli occhialini del 3D.
Da questo momento, durante la visione in sala, anche gli spettatori devono indossare gli occhialini del 3D, perché il film subisce una trasformazione radicale, abbandonando la dimensione piatta e bidimensionale della finzione cinematografica che rappresenta la realtà, per entrare in un mondo tridimensionale e surreale, quello della realtà aumentata e irreale del cinema che rappresenta il sogno.
Il sogno
Luo Hongwuo si sveglia mentre traghetta una piccola imbarcazione in una miniera e s’imbatte di colpo in un ragazzo di soli 12 anni, coperto da una maschera che sembra il teschio di un animale morto e che si palesa come unico abitante di quel posto, un luogo strano, unico e labirintico, in cui si entra senza rendersene conto e da cui è arduo uscirne. Il ragazzo toglie la maschera e accoglie con benevolenza il nuovo arrivato, come se fosse un amico ritrovato dopo tanto tempo, invitandolo a giocare con lui una partita di ping-pong. Solo dopo averla vinta, Luo Hongwuo riceve la rassicurazione da quel ragazzo, che lui chiama Randagio perché gli ricorda il suo amico morto, di essere condotto verso l’uscita della miniera. Solo che Randagio non può varcare la soglia, perché anima defunta condannata a rimanere vincolata in quel luogo, mentre Luo Hongwuo si ritrova in un posto ignoto, che somiglia alla sua Kaili, ma non sembra la realtà, circondato da personaggi strani e a tratti grotteschi, immerso in una piccola fiera rurale di paese, quelle che accendono piccole luci d’inverno con un palco per tutte le esibizioni.
Qui Luo Hongwuo entra in una sala da biliardo gestita da Kai Zhen (sempre interpretata da Tang Wei), il cui nome suona come “ragazza di Kaili”, ma il cui aspetto è in tutto e per tutto identico a quello di Wan Qiwen. Come quest’ultima, anche Kai Zhen vorrebbe diventare cantante e fuggire da quella sala da biliardo in cui si trova incastrata. Come Wan Qiwen, conosce la medesima storia sul pomello magico e sulla sua scoperta, che dona libertà e poteri speciali; e, come lei, è alla ricerca di una casa abitata tanto tempo prima da una coppia, il cui amore aveva permesso alla stanza di roteare.
“La luna sembra più grande da qui”. “Non è la luna ad essere più grande. Siamo noi che stiamo volando”.
Siamo chiaramente all’interno di un sogno, quello di Luo Hongwuo e, forse, anche quello di Wan Qiwen o, addirittura, dello spettatore stesso, un sogno dove è possibile volare e dove alberga perennemente una fiera di campagna con le sue luci e i suoi personaggi, dove bianco e nero e colori accesi si intersecano e si confondono e i personaggi incontrati durante la vita reale trovano ristoro con una maschera che nasconde la loro apparenza per mostrare il loro vero io interiore: così la donna con i capelli rossi (magistralmente interpretata da Sylvia Chang, che dava il volto anche alla madre di Randagio), o la stessa Kai Zhen, che somiglia a Wan Qiwen o, persino, Randagio, mai apparso davvero al di fuori della dimensione onirica. E Luo Hongwuo si perde e si confonde in quel sogno, che ha tutte le caratteristiche dell’irrealtà da fine del mondo, ma che sembra molto più vero della realtà che si è sforzato di vivere ogni giorno, circondato da quei dolori che gli hanno reso impossibile volare, ovvero percepire la dimensione del meraviglioso, quella che viene in contatto con il mondo altrove dalla realtà, dove trova finalmente ristoro l’inconscio.
In fondo, “Alcuni dicono che i sogni siano ricordi del passato perduto“, quel passato che Luo Hongwuo cerca di recuperare e di riprendere in mano, anche a costo di inserirlo nei propri sogni. Quegli stessi sogni che sono l’unico luogo dove lui e Wang Qiwen possono incontrarsi e dove il loro amore può fare roteare la stanza, come i personaggi del libro verde.
“Il poeta è un eroe che rivela altri poeti”
Il film è un viaggio tra sogno e realtà, come un racconto in cui prosa e poesia si incastrano insieme, ed è sicuramente un prodotto raro da vedere, complicato da comprendere, eppure bellissimo per anima e occhi. L’impalcatura è costruita su diversi piani narrativi, che alternano presente e momenti diversi del passato a più riprese, ma anche realtà, diversamente collocata nel tempo, e sogno, come rielaborazione della memoria dove il tempo e lo spazio si annullano. Gli eventi sono accompagnati da una voce narrante in prima persona, quella del protagonista, dove l’io diventa quasi soggetto esterno ad essi, ma filtro interpretativo che li internalizza nel proprio inconscio, tant’è che non si percepisce tanto l’evolversi degli eventi, quanto il loro significato nell’evoluzione della personalità del protagonista. La voce narrante accorpa l’ego, soggetto della realtà, e l’es, soggetto del sogno.
Lo stimolo della narrazione è sempre fornita dal superamento di un lutto (quello del padre del protagonista all’inizio della narrazione presente, quella dell’amico Randagio nei ricordi passati), che il protagonista recepisce come dolore interno, andando a confluire in quel substrato di dolore già presente nella parte più profonda del proprio io, quella che ha assorbito il dolore per la scomparsa della madre (altro lutto/non-lutto, evento costitutivo del primo turbamento nella crescita del protagonista). Con la dinamica dell’evento-stimolo del ricordo passato, ovvero della madeleine proustiana che riporta alla mente fatti ed emozioni, la storia è costruita tutta come un flusso di coscienza unico e continuo, che, se nella prima parte, quella narrativa, è interrotto dalla diversificazione temporale, nella parte finale, quella del sogno, diventa un tutt’uno con la mente del protagonista.
Proprio l’ultima parte, che ricostruisce con una dimensione onirica l’inconscio del protagonista, rende la pellicola unica in sé, anche per il fatto che è ricostruita come un intero piano sequenza, senza tagli né stacchi, di circa 59 minuti, arricchiti dalle riprese tridimensionali (resi ancora di più al cinema dalla proiezione in 3D, oltre che dall’uso di Red Cam, riprese ascensionali ed elaborazioni tecnica articolate). La dimensione onirica destruttura quanto narrato nella prima parte, andando oltre il tempo e lo spazio, ma anche oltre l’artificio metateatrale (il cinema dove si recano i protagonisti) e metaletterario (il libro verde) utilizzati, creando la vera realtà, cioè l’emergere del più profondo inconscio, dall’illusione (l’inizio della proiezione in 3D al cinema per il protagonista) e identificando i protagonisti della storia in quelli del libro stesso. Tutti i personaggi della realtà sono, in qualche modo, richiamati nella dimensione onirica, come simbolo di qualcosa, tanto da far dubitare sulla loro effettiva esistenza nel mondo reale (così per la madre di Randagio, che diventa la donna dai capelli rossi).
Tutto il film è corredato da una serie di elementi che diventano simbolo della realtà transeunte, quella intangibile, ma necessaria alla realtà contingente, eppure percepibile solo attraverso il ricordo e il sogno: l’orologio bloccato come simbolo del tempo, del suo scorrere, ma anche della sua cristallizzazione nei momenti che hanno segnato dei traumi; il numero di telefono inesistente come simbolo dell’incapacità matematica di percepire e tradurre le emozioni celate e represse; le mele (richiamate anche dal pomello magico) come simbolo di discernimento pericoloso (o di peccato), usando l’interpretazione cristiana, o come simbolo di abbondanza, fecondità femminile e, quindi, anche serenità e speranza in una nuova vita, secondo la tradizione cinese; il libro come simbolo di conoscenza, di crescita, ma anche di fuga dalla realtà; il colore verde (dell’abito di Wang Quiwen), che si collega al chakra del cuore, quello dell’amore incondizionato ed eterno; il pin pong, ma anche il biliardo come rappresentazione del nesso di causalità umana; il canto come unico veicolo di linguaggio elevato, che ascende dalla realtà e collega alla dimensione inconscia.
E, poi, infine, c’è la poesia, che, col tempo, apprendiamo essere il vero arcano linguaggio con cui è stato scritto il misterioso libro verde e, quindi, la storia dei due innamorati che hanno fatto roteare la stanza, che diventa qui linguaggio dell’anima, incomprensibile con le parole ordinarie, perché racchiude in sé quella matematica della metafisica che solo i sentimenti possono decifrare e che trova collocazione in un non-luogo e in un non-tempo, dove le leggi delle fisica si annullano nel sogno, l’unico capace di colmare quel vuoto apparente che sta al di là della realtà tangibile. Per riprendere le parole di Roberto Bolaño:
“Fino ai confini del sistema solare ci sono quattro ore-luce; fino alla stella più vicina quattro anni-luce. Uno smisurato oceano di vuoto. Ma siamo davvero sicuri che ci sia solo un vuoto? Sappiamo solo che in questo spazio non ci sono stelle luminose, perché sarebbero state visibili. Ma è possibile che esistano corpi non luminosi ma oscuri? Forse le nostre mappe celesti, come quelle terrestri, indicano le stelle-città e omettono le stelle-villaggi”.
Laura
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