“Il sole rosso era sospeso sulle colline occidentali.
Il branco dei cervi piange triste.
Sul monte che distaccatosi è ceduto
io invoco il suo nome.
Fino a essere catturato dalla passione dell’incertezza.
Fino a essere catturato dalla passione dell’incertezza.
Il suono della mia voce si affievolisce
ma la distanza tra il cielo e la terra è troppo immensa!
Anche se diventassi una roccia innalzata proprio qui
invocando il suo nome io morirò!
Lei che ho amato!
Lei che ho amato!”
(Kim Sowol, “Invocando uno spirito”)
Kim Sowol (김소월) è forse una delle figure che rappresenta meglio sia la poetica coreana (le sue poesie sono note e tradotte in numerosi Paesi del mondo), sia quel sentimento di nostalgia e di malinconia tipico di colui che vive da esule in patria, retaggio di un’antica nobiltà ridotta in schiavitù, simbolo di quella Corea oppressa durante il dominio coloniale giapponese e in cerca di mantenere una propria identità, sfumata come un ricordo.
Il senso della perdita di se stessi, della propria casa, della propria patria e dell’identità nazionale (che, nel piccolo, è anche l’identità personale) segna tutto il lavoro di Kim Sowol, poeta, unico e autentico, ma anche apripista nella lirica coreana di una poesia costituita da tratti delicati e scarni, carichi, però, di quell’emotività racchiusa nel proprio intimo e pronta ad esplodere, come una pioggia di petali e di foglie disseminati in aria e portati dal vento, e segnati da un ritmo incessante, quasi ripetitivo come un ritornello di un canto popolare. Il lessico intimista e quegli schizzi crepuscolari delle piccole cose entrano nella dimensione poetica accanto alle grandi tematiche tradizionali, collegate alla sofferenza del popolo sotto il giogo della dominazione, evolvendo l’epica antica della poesia coreana in un’elegia moderna e trasognata, rimasta sospesa nel tempo, più accorta a comprendere i reali sentimenti del popolo, che a voler intervenire a tutti i costi nell’attualità.
Ed è forse proprio questa visione al di sopra di ogni fatto, eppure partecipata nelle emozioni e nei sentimenti a descrivere la grandezza di questo poeta e a farlo rimanere eterno nella sua lirica.
“Se ti stancherai di me
E deciderai di andare
In silenzio io ti lascerò partire
A Yongbyon sul monte Yaksan
Vestirò il cammino tuo
dei fiori d’azalea raccolti.
E tu passo dopo passo andrai
calcando lievemente
quei fiori lì disposti.
Se ti stancherai di me
e deciderai di andare
pur morendo io non verserò una lacrima”.
(Kim Sowol, “Fiori d’azalea”)
La natura, come gli oggetti quotidiani, viene in soccorso della poetica di Kim Sowol, diventando uno specchio dei sentimenti e delle emozioni, intrisi della nostalgia del poeta, ma anche strumenti per costruire una metafora più complessa. Kim Sowol, infatti, non canta l’amore, come gran parte dei poeti, ma l’abisso della sua assenza, caratterizzato dalla consapevolezza della sua antica presenza come di un ricordo sopito e dal riconoscimento della sua perdita. L’amore sospirato e perduto è, quindi, immagine riflessa di un’epoca perduta, forse mai conosciuta, ma di cui si ha una costante consapevolezza: l’epoca dell’identità e della libertà, rappresentata dal fiore di azalea, uno dei simboli della Corea, ora staccatosi dalla pianta e disposto lungo il cammino dell’amata, che è sempre l’antica patria, pronto a raccoglierne la sua impronta, come il lieve passaggio di qualcosa che c’è stato ed ora non c’è più.
“Quanto è bianca e immensa l’acqua, più del cielo.
Certe nubi sono rosse più del sole.
Sconsolato, in mezzo a un campo di irte spighe,
Io girovagavo piangendo e penso a te.
La mia ombra, stiracchiata innanzi ai piedi,
ha di fronte la mia strada, dove avanzo,
mi dirigo sotto l’albero più alto
e nel borgo d’acqua affioran rami spogli.
Non promise mai nessuno di raggiungermi!
Non c’è alcuno che mi aspetti di vedere!
Ma girovago comunque sulla sponda
di un torrente solitario all’imbrunire.
(Kim Sowol, “Alla sera d’autunno”)
Ed ecco che il canto del poeta, costruito come un canto della tradizione (vedi il famoso “Arirang“) e ricco delle immagini evocative delle storie popolari, diventa un canto di solitudine, proprio perché, nella perdita dell’amata (patria) e nella confusione di sé, consapevole di non avere più un appiglio con se stesso, annegato e dimenticato nell’acqua della storia, girovaga in solitaria nel mondo, dove spazio e tempo si allungano e si restringono in un’unica dimensione, quasi come se fosse un mondo alienato e irreale, che è, poi, la dimensione del proprio inconscio.
La vita di Kim Sowol fu, in effetti, segnata da dolore e sofferenze, rappresentante tipico dei tempi che cambiavano e di quel popolo coreano abituatosi alla resilienza di fronte alle tempeste della storia. Nato a Kusong (oggi in Corea del Nord) il 7 settembre 1904, la sua vita è stata segnata da un’infanzia difficile, caratterizzata da problemi economici e dalla malattia del padre (sopravvissuto miracolosamente ad un terribile pestaggio da parte di un gruppo di giapponesi, ma rimasto intrappolato in un disturbo da stress post traumatico). La sua vita poetica fu breve, seppure molto intensa: tutte le poesie che ci sono arrivate sono state scritte in soli quattro anni di giovinezza, dal 1920 al 1924, racchiuse in un unico periodo del poeta, come se provenissero dalle pagine del suo diario, tanto da essere suddivise nella sua raccolta “Fiori d’azalea” (진달래 꽃) in fasi caratterizzate dal passare dei giorni e delle stagioni. Poi, improvvisamente, il suo canto si zittì, spegnendosi in un silenzio volontario, da cui uscì solo dieci anni dopo: Kim Sowol si tolse la vita il 24 dicembre 1934.
Secondo la critica letteraria (manuale di letteratura coreana, a cura di Antonetta L. Bruno e Maurizio Riotto): “Kim Sowol è un poeta che trasforma nello spazio profondo dell’anima le emozioni e la coscienza dell’uomo; egli gioca poeticamente con le parole e riesce a trasmettere forti e sorprendenti emozioni al ritmo di canti popolari”.
Emozioni che rimangono eterne anche oggi, perdendosi nei versi delle sue poesie e che, quando le sentiamo anche solo citate o recitate all’interno di film e drama (tra tutti, “The King: Eternal Monarch”), rimangono impresse come elegia per un’era perduta.
(le poesie qui riportate sono state tradotte da Jung Imsuk, che ha curato l’edizione italiana di “Fiori d’Azalea” edito da Orientalia)
Laura
