“Un suddito leale non serve mai due re e una moglie virtuosa non serve mai due mariti”.
C’è un antico detto, derivante dalla cultura confuciana, che è stato acquisito in pieno dalla società coreana a partire dal XV secolo ed è diventato una linea guida per gestire e limitare la vita femminile, contribuendo alla costruzione di un sistema tipicamente patriarcale, basato sulla figura maschile più anziana come depositaria della saggezza e del potere di tutta la famiglia, a cui tutti dovevano prestare obbedienza, lealtà e amore filiale (uno dei valori più elevati per rispettare l’armonia sociale confuciana, in quanto specchio del rapporto tra sudditi e istituzioni, monarca compreso). Il maschio più anziano era anche l’unico in grado di gestire l’autorità e anche di esprimersi sulle condizioni di vita dei componenti della famiglia, perché detentore dell’hoju or hojuje (호주 or 호주제), il cosiddetto registro familiare, di fatto un libro in cui erano inseriti tutti i nomi e i comportamenti di tutti i membri della famiglia, compreso le eventuali condanne comminate dal padre.
Durante la visione di “Knight Flower” mi ha particolarmente impressionato il fatto che la società Joseon considerasse la condizione della vedovanza come una macchia, quasi un oltraggio peccaminoso che la donna, perso il marito, commetteva nei confronti dell’armonia sociale e come, pertanto, la sua intera esistenza dovesse essere votata ad espiare le proprie “colpe” (inesistenti, visto che non era stata causa della morte del marito), sono rimasta impressionata dalla quantità di regole a cui una donna virtuosa doveva sottostare, che aumentavano a dismisura nei confronti della vedova che voleva essere considerata virtuosa.
Tuttavia, il drama non ha affatto esagerato sulle condizioni della vita femminile (e delle vedove, in particolare), visto che tali comportamenti erano codificati dalle leggi di Joseon, che ne stabilivano anche le eventuali sanzioni in caso di violazione. La revisione normativa del 1485 portò il consiglio del re a codificare ed approvare il Gyeongguk Daejeon (경국대전), un codice che comprendeva tutte le normative di Goryeo ancora valide e le norme di Joseon approvate e che stabiliva i comportamenti e i costumi da seguire per il suddito virtuoso e, di riflesso, quali fossero le violazioni che andavano punite perché crimini contro la struttura stessa dello stato. Tale corpus di leggi, interpretando antichi costumi e ammonizioni dottrinarie, comprese anche il divieto per le vedove di risposarsi, specificando quali punizioni dovessero esse subire in caso di violazione, che includevano la pena di morte per le vedove ree di un nuovo matrimonio, ma anche il divieto per figli, nipoti e familiari di ricoprire qualsiasi incarico pubblico e di sostenere l’esame a funzionario di Stato, oltre che di prendere servizio nell’esercito per la vecchia credenza che le colpe di un componente della famiglia dovessero ricadere su tutti.
La legge non si limitava solo a stabilire un divieto simile, ma rinviava anche ad un codice comportamentale da seguire per poter incarnare il ruolo di Yeolnyeo (열녀), donna virtuosa, che diventava ancora più oneroso per donne coniugate, in quanto qualsiasi comportamento avrebbe avuto un riflesso sulla vita politica e pubblica del coniuge, e per le donne vedove, in quanto qualsiasi violazione avrebbe costituito una frattura nell’ordine statale. La virtuosità era valutata, anzitutto, sulla base della castità e della fedeltà al marito, per cui arrivava a livelli di purezza unica se una donna, rimasta vedova, decideva di suicidarsi o di lasciarsi morire di fame per seguire il marito nella tomba (talvolta, per un ordine o una macchinazione vera e propria della famiglia come si vede nel “The Park’s Marriage Contract“). E, naturalmente, prevedeva il divieto assoluto di non sposarsi e di avere figli, divieto che era possibile superare solo in caso di nozze riparatrici per rapimento della vedova (rapimenti che, col tempo, furono gestiti dalle vedove stesse per by-passare la legge, come si può vedere nel drama “Bossam: Steal the Fate“).
La virtuosità era determinata anche da tanti altri piccoli atteggiamenti che la donna era tenuta a seguire, come: l’uso di determinati colori nell’abbigliamento, se coniugata, del bianco come lutto, se vedova, la copertura del capo, se fuori dalle mura domestiche, di una parte del viso, se vedova, i passi cadenzati senza sporcare l’orlo delle vesti, indice di purezza e di eleganza, la voce bassa e gli occhi umili, la bravura nelle arti, il costante digiuno e la privazione di cibo e bevande superflue (perché, secondo un’antica credenza, la donna può vivere anche senza acqua), le movenze impercettibili e le preghiere continue a qualsiasi ora, la pietà nell’aiutare i più poveri e i più umili, oltre all’isolamento e alla solitudine, una condizione in cui la vedova finiva per abituarsi, vivendo quasi in eremitaggio.
Come esistevano sanzioni, esisteva anche una premiazione per le vedove più virtuose, che erano riuscite a vivere in modo impeccabile la propria vedovanza: il cosiddetto “portale della castità”, elargito di solito dalla regina madre (o, in mancanza, dalla regina consorte). Così come nel drama “Knight Flower”, la questione del portale della castità è al centro anche di uno dei più famosi film storici sudcoreani degli anni ’60, intitolato “The Memorial Gate for Virtuous Women” o “Bound by Chastity Rules“, diritto da Shin Sang-ok e interpretato dalla divina attrice Choi Eun-hee, la coppia d’oro del cinema coreano, che fu al centro di un affaire molto particolare con la Corea del Nord (e di cui parleremo un’altra volta). Il film è stato ritenuto una delle opere migliori del cinema sudcoreano a tema storico e presentato, a suo tempo, al Festival di Cannes e al Berlinale.
Il codice normativo Joseon che imponeva la segregazione delle vedove perse efficacia alla fine del XIX secolo, quando venne riformato e sostituito dalle cosiddette riforme Kabo, ispirate dalla contemporanea modernizzazione e liberalizzazione giapponese con le riforme Meiji. Con la nuova normativa, decadde qualsiasi imposizione per le vedove, compreso le sanzioni in caso di nuovo matrimonio, e soprattutto si aprirono nuove prospettive per la partecipazione in società. Sull’onda di una nuova fiducia e della richiesta di un trattamento giuridico che potesse essere eguale a quello delle donne occidentali, le vedove dei ricchi nobili yangban (la classe più elevata di Joseon, comprensiva dei funzionari di Stati e dell’esercito), che erano riuscite a liberarsi dall’isolamento confuciano, fondarono nel 1898 la Chanyang-hoe [찬양회], letteralmente l’associazione per la gloria e l’incoraggiamento delle donne, storicamente ricordata come la prima organizzazione femminista in Corea, alla genesi delle riforme e delle richieste di diritti per le donne.
Una lunga strada – dai divieti comportamentali alla parità tra donne e uomini – di cui credo sarebbe stata fiera anche l’eroina di “Knight Flower“.
Laura

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