“La mente dell’uomo superiore ha familiarità con la giustizia; la mente dell’uomo mediocre ha familiarità con il guadagno“.
(Confucio)
Si sa che il pensatore e filosofo cinese Confucio ha sicuramente forgiato l’etica e la morale in Estremo Oriente, ma forse non tutti sanno che il pensiero confuciano è anche alla base del diritto, dell’amministrazione, della politica e della burocrazia. Così come a livello politico-istituzionale le istituzioni si sono modellate sulla base dei precetti derivanti dalla dottrina di Confucio e dei suoi successori, nello stesso modo hanno avuto una grande influenza anche nel sistema giudiziale vero e proprio, fino a forgiare l’ossatura di una “società non litigante”, ovvero di una società che preferiva evitare il conflitto, perché quest’ultimo segnava una frattura nell’armonia costante tra tutti gli elementi che concorrono a formare la società stessa. “Litigare”, ovvero confrontarsi in tribunale, poteva equivalere quasi ad una “perdita di faccia”, o, perlomeno, ad una perdita di nobiltà d’animo e di educazione che si era conquistata con tanta fatica e con tanti studi, una nota stonata e stridente, che avrebbe mutato la percezione di tutta la società nei confronti del singolo litigante e, quindi, la sua considerazione stessa all’interno della società. Per questo motivo, la morale confuciana, applicata a politica e diritto, ha preferito costruire mezzi e strumenti conciliativi e compromissori, in qualche modo differenti rispetto al classico schema occidentale del confronto tra le parti in giudizio.
L’incontro con la cultura occidentale e la modernizzazione delle istituzioni hanno sicuramente portato ad un mutamento, così come all’accoglienza di procedura civile e procedura penale simili a quelle del diritto anglo-continentale, anche perché la complessità di nuove posizioni giuridiche, di nuove tutele di diritti e, quindi, anche di nuovi ipotetici atti illeciti si sarebbe adattata poco alle forme conciliative di derivazione confuciana. Tuttavia, la base dell’armonia fondamentale tra tutti gli elementi della società rimase inalterata e si trasfuse nell’armonia tra tutti gli elementi dello Stato, ma anche tra tutti gli elementi del diritto.
Ed è con queste premesse che nel 1922 la Dieta giapponese adottò il Codice Civile (il primo era del 1890, segnato dalle riforme del pieno “Splendore Meiji”), che comportò, a sua volta, delle modifiche del Codice di Procedura Penale nel 1922 (introdotto nel 1890 sulla base del modello francese) e del Codice di Procedura Civile nel 1829 (introdotto nel 1891 sulla base del modello tedesco). Di fatto, il Codice nipponico fu modellato sul Codice Civile tedesco, incorporando una serie di elementi del diritto occidentale, ma fu particolarmente attento a preservare le unicità conciliative di una società e di una cultura, che, fino al XIX secolo, non aveva mai conosciuto un processo giudiziario con tanto di dibattimento innanzi al tribunale. Per questo motivo, all’interno del Codice, accanto alla classica procedura “litigiosa” innanzi ai tribunali, furono contemplate diverse forme di conciliazione e/o mediazione alternativa alla lite giudiziale, ma aventi il medesimo valore tra le parti.
I miei studi giuridici mi avevano già fatto imbattere nel sistema procedurale conciliativo giapponese, dandomi modo di approfondire e di occuparmi dell’argomento con diversi scritti. Ma, si sa, quando si studia qualcosa, si rimane sempre sui libri e quasi non ci si rende conto di come avvenga nella pratica. Quando ho guardato la serie giapponese “Ishiko e Haneo – Mi fai causa?“, improvvisamente i ricordi delle mediazioni giapponesi in tribunale mi sono riaffiorati come se fossero una madeleine proustiana. E, a quel punto, ogni episodio di quel legal così peculiare, attento e dettagliato nei casi affrontati, senza mai perdere di vista i personaggi, diventava un lento ripasso delle norme di quel Codice, che neppure la guerra è riuscita ad abrogare.
Haneo, diminutivo strambo di Yoshio Haneoka, l’avvocato protagonista del drama, odia finire in discussione in tribunale, consapevole dei suoi limiti oratori e del suo panico che lo blocca quando parla in pubblico, ma, forse, oserei dire, erede di una cultura antica, che, mischiando la morale confuciana con i precetti dello shintoismo, una società verticale e un influsso buddista, considera la lite giudiziale una ferita per l’unità armonica del tutto. Pertanto, Haneo cerca di risolvere ogni caso, ove possibile, fuori dal tribunale, ovvero per via conciliativa.
Ad oggi, la maggior parte dei giapponesi preferiscono ricorrere al cosiddetto chōtei (調停) in luogo del processo civile, ovvero una forma antica di media-conciliazione, che può essere usata come fase pre-processuale o direttamente per sostituire il processo e dove le parti tentano di addivenire ad un accordo tra loro grazie all’intervento di una terza parte, un conciliatore nominato dal giudice del foro competente sulla base di liste di cittadini “probi”, moralmente ineccepibili e con studi giuridici. Naturalmente, è compito degli avvocati di parte intervenire per aiutare il conciliatore e le parti ad arrivare ad un accordo. Questo sistema è usato particolarmente nell’ambito di questioni di diritto di famiglia (kaiji), che i giapponesi preferiscono devolvere direttamente alla conciliazione senza passare dal tribunale (il caso dei maltrattamenti familiari affrontato all’interno del drama ne è un esempio).
Ma non è l’unico strumento conciliativo, perché, per determinate materie, inerenti al lavoro, all’edilizia, all’ambiente, al commercio, esiste il chūsai (厨宰), una forma di arbitrato particolare, che vediamo in azione diverse volte all’interno del drama – già dal primo episodio, non tanto per la questione del furto di energia da parte dell’avventore di un bar che carica sempre il suo cellulare, ma per la questione dell’esclusione dal lavoro e della rilevazione di posizioni abusive da parte dei datori -, ma che diventa quasi una linea guida di tutto il drama, tanto da trovare il suo apice negli ultimi due episodi (senza spoiler, vale davvero la pena recuperarli sia per la sceneggiatura, che per gli amanti del diritto, perché vengono alternati due tipi diversi di mediazione per arrivare al processo finale con tanto di dibattimento).
Infine, esiste il wakai (若い), che combina gli elementi della conciliazione con quelli della lite e si svolge in una vera ricerca del compromesso tra le parti, in modo tale che nessuno risulti vittorioso e nessuno sconfitto (o, forse, entrambi sconfitti, secondo l’etica propria giapponese), ma che possa arrivare a trovare quel punto di sintesi comune tra gli interessi e le lagnanze delle parti, senza trascendere. L’episodio dedicato al pruno sacro e alla lite tra i due anziani confinanti, forse il più bello di tutta la serie, segue quelle movenze cadenzate di questo strumento conciliativo in modo esemplare. Tra l’altro, questo strumento risulta il più utilizzato nel distretto di Tokyo, tanto da avere avuto uno sviluppo tutto suo in una variante in cui è possibile anche presentare prove e testi (in modo simile ad un vero processo).
Il controllo, l’armonia, la virtù e la conoscenza di quando e come parlare e quando e come stare in silenzio. Perché la parola è sempre importante e può determinare le sorti di una persona, per cui va calibrata e spesa nel momento e nel modo giusto, senza necessità di perdere il proprio equilibrio arrivando ad una lite. Ecco cosa ha trasmesso Confucio ad una società, come quella giapponese, che continua a conservare la sua particolarità anche nel diritto processuale.
“Per una parola un uomo viene spesso giudicato saggio, e per una parola viene spesso giudicato stupido. Dunque, dobbiamo stare molto attenti a quello che diciamo”.
Laura
