“Qualsiasi cosa possa spaventarti, tieni gli occhi aperti e fronteggiala”.
Qualcuno ha ripetuto “Jeong Jin-man” tre volte consecutive per venire salvato da uno strano uomo solitario vestito di nero, che sembra apparire dal nulla per scomparire nuovamente nel buio, infallibile cecchino di tiro? Se è così, la vostra sorte e la vostra fortuna potrebbe essere simile a quella di Jeong Ji-an, ragazzina taciturna e con un passato traumatico, a cui è capitata la ventura di trovarsi un uomo simile come zio e tutore e a cui capita anche il complicato destino di trovarsi al centro di un affare molto più grosso rispetto al previsto, tra bande di assassini, mercenari senza scrupoli, trafficanti di armi e le peggiori anime di questa terra. Ma è il caso di chiarirlo sin da subito: questo non è un normale crime, né un action thriller di suspence e spari a cui decenni di Hollywood ci hanno abituato, né tanto meno una spy story tradizionale. Prendete il romanzo originale “The Killer’s Shopping Mall” di Kang Ji-young e, poi, rompetelo, frazionatelo in tanti piccoli frammenti e rimontateli in capitoli sparsi e non consecutivi, cambiando continuamente il narratore, filtrando ogni singolo frammento da un punto di vista specifico. Aumentate la velocità e decelerate a piacere mentre riavvolgete al contrario, ingrandite e sgranate un solo dettaglio, sfocando tutto il resto, avvitate il movimento e confondete i personaggi. Poi, aggiungete un po’ di quell’ingrediente segreto che risponde al nome di Lee Dong-wook e che divora qualsiasi palco su cui recita, immenso nella sua bravura eccentrica da one-man show. Ed è così che otterrete un drama come “A Shop for Killers” (킬러들의 쇼핑몰), un drama diretto e sceneggiato da Lee Kwon, già regista del film “Attack on the Pin-Up Boys” (mystery comedy che ha fatto decollare la carriera da attore di Choi Siwon, ma che, di fatto, sembra nato da un’idea di Tarantino, dove fabula e intreccio non corrispondono e ogni pezzo è un capitolo a se stante che prende solo un tassello della storia univoca narrata.
A Jeong Ji-an (interpretata dalla bravissima Kim Hye-jun, già perfida regina consorte in Kingdom, aiutante leale in Connect, killer spietata in Inspector Koo) viene improvvisamente comunicato che lo zio con cui viveva, Jeong Jin-man (un Lee Dong-wook, che non ha nemmeno bisogno di ulteriori presentazioni, già super-interprete di Goblin, Tale of the Nine-Tailed, Bad and Crazy, Strangers from Hell, ma anche Scent of a Woman e A Year’s End Medley) si è suicidato, lasciandola erede della sua casa in campagna e di un conto in banca cospicuo, un po’ troppo nutrito per un semplice imprenditore agricolo che commercia macchine per i campi. Quando Ji-an torna a casa per prendersi cura del funerale e dell’eredità, però, si rende conto che la vita dello zio non è stata caratterizzata da quella patina noiosa e grigia che pensava e che il suo ingente patrimonio deriva da una doppia esistenza condotta tra l’attività di mercenario e contractor e un sito nel dark web per vendere armi e mezzi a killer di ogni specie. Il suo “shopping mall” online, nominato Murtherhelp, si fonda principalmente sul possesso di tre codici colorati per distinguere i clienti: il codice rosso appartiene ai killer professionisti, che sono abilitati ad acquistare solo mezzi che servono per il proprio lavoro (armi, bombe, ma anche veleni); il codice viola identifica le spie, le cui esigenze di acquisto sono più ampie e diversificate rispetto ai killer, visto che, accanto alle armi, comprendono strumenti per lo spionaggio, ma anche la possibilità di vendere informazioni; il codice giallo è quello dei pulitori, ovvero coloro che sono ingaggiati per eliminare le tracce di un avvenuto crimine e vanno dalla vendita di semplici detergenti, a droghe e allucinogeni a servizi amministrativi deviati per l’evasione fiscale; infine, il codice verde, in possesso solo di due persone (Jeong Jin-man e sua nipote Jeong Ji-an), che riserva uno status speciale, per cui nessuno di coloro che hanno ricevuto uno dei codici colorati della Murtherhelp può attaccarlo e, al tempo stesso, nel caso di attacco – anche esterno – nei loro confronti, coloro in possesso di qualsiasi codice colorato hanno l’obbligo di proteggere il codice verde. Si tratta del codice intrinsecamente celato nel richiamo a voce altra “Jeong Jin-man” che diverse volte ha salvato la vita di Ji-an.
Rimasta sola con al fianco l’ex compagno di scuola Bae Jeong-min (interpretato da Park Ji-bin, che era il fratellino della protagonista di Boys over Flowers), hacker abilissimo, ma anche viscido e poco leale, Ji-an si trova presto circondata da nemici di ogni tipo, forse coinvolti nella morte dello zio, ma quasi certamente determinati a non lasciarla in vita, oltre che da killer e criminali in possesso di codici della Murtherhelp che decidono di proteggerla (su tutti So Min-hye, interpretata da Geum Hae-na, killer cinese veloce e abile costruttrice di armi, e Pasin, interpretato da Kim Min, ex mercenario di origine thailandese e vecchio amico di Jin-ma, con cui continua condividere molte confidenze). Mentre si trova al centro di un conflitto tra killer e disvela il rifugio sotterraneo dello zio e della sua Murtherhelp, gestita da Brother (Lee Tae-young), un ragazzo pieno di tic e allergico al sole, che vive nelle viscere della sua casa, la mente di Ji-an vaga da sola in mezzo ai ricordi del suo trauma infantile e della sua complicata crescita, dall’uccisione improvvisa e misteriosa dei genitori e dalla morte in contemporanea della nonna, in quella famosa notte dove lo zio le aveva spiegato, per la prima volta, come sopravvivere, secondo le leggi crudeli della natura: “Vedi come le iene circondano il leone per sbranarlo? Mentre lo circondano, continuano ad urlare, mentre il leone, che sa che sta per morire, rimane in silenzio a fronteggiarle. Le iene sono deboli. Solo i deboli urlano, i forti no“.
Mentre ricostruisce il passato, iniziano a sorgere i dubbi su chi possa essere intervenuto in quello sterminio e per quale motivo e, soprattutto, quali fossero le reali attività di quello zio apprensivo e un po’ paranoico che l’aveva cresciuta, insegnandole a sparare e a tirare di boxe (o, meglio, di Muhay Thai), a nascondersi negli armadi o ad usarli come scudo, a diffidare di tutti e ad aspettarlo sempre. Perché la morte è solo un dettaglio che può accadere nella vita, ma non sempre è sufficiente a fermare un personaggio come Jeong Jin-man.
Come se fosse uscito dalle pagine de “L’arte della guerra” di Sun Tzu, Jeong Jin-ma è un personaggio che unisce il sé secoli di etica confuciana e di saggezza taoista coreana (e non solo), rendendo con le sue parole e le sue azioni l’anima di un popolo guerriero, molto spesso tacitata. Così, infatti, insegna ad essere forti anche e soprattutto nel momento del timore, a non abbassare mai la testa, a guardare il pericolo frontalmente negli occhi e a comprendere in sé il prezioso valore del silenzio. Urlare, gridare le proprie paure e i propri segreti è indice di debolezza, perché dà la possibilità agli altri – avversari compresi – di avvicinarsi e di cogliere l’anima, per strappare completamente qualsiasi forza vitale. D’altronde, “La strategia è la via del paradosso”: se si è forti, occorre mostrarsi deboli, perché ogni vantaggio è conquistato con la confusione, mentre la difesa è una strategia migliore dell’attacco, perché permette di non uscire allo scoperto e di studiare l’avversario nelle sue debolezze e nelle sue preoccupazioni. Comprendere e anticipare, agire con ponderazione e con celerità, conformandosi al nemico, adattandosi fino a non fare capire la propria forma per trarre vantaggio da qualsiasi situazione di svantaggio. Colui che “non dà nemmeno battaglia e sottomette le truppe dell’avversario” è il vero vincitore, perché ha compreso che la strategia migliore sta nel far fallire i piani dell’avversario. Si attacca la fortezza solo quando è inevitabile. I comandanti non devono possedere l’ira o “verranno dispersi”, ma devono sapere “quando dare battaglia, e quando astenersene”, devono capire la giusta quantità di uomini da impegnare, sapendo “indurre ufficiali e subordinati a nutrire gli stessi desideri”, agendo con il silenzio, prezioso compagno di qualsiasi stratega, segno di riflessione, di chiusura, di ponderazione meditata e di azione repentina, come in uno scoppio.
Se osserviamo la strategia adottata da Jeong Jin-min, consta tutta in questo silenzio, che diventa adattabilità e previsione delle tecnico del nemico per bloccarlo, anticipandolo nei suoi intenti. A questo punto, preziosa diventa la vita che Jeong Jin-min conduce nella testa della nipote, che, durante le situazioni di pericolo, pensa allo zio, riadatta le sue spiegazioni e le sue affermazioni, sparse qua e là in breve e apodittici rilievi del passato, mentre ricostruisce il percorso che lo ha portato a diventare un mercenario, prima, e un trafficante di armi, dopo, oltre alla frattura che si è creata nella sua vita, nel momento in cui si è opposto alla violenza gratuita e immotivata delle pratiche impostegli come mercenario. Nel comprendere il passato, ma anche l’umanità e la compassione, punti fermi della vita dello zio, nonostante qualsiasi sua professione, Ji-an comprende anche se stessa, arrivando ad estirpare il trauma che la aveva sempre condizionata dall’infanzia e che aveva gestito le preoccupazioni dello zio e capendo come i due siano sempre riusciti ad esserci l’uno per l’altra nel loro dialogo silenzioso, fatto da menti che risuonano all’unisono.
Tecnicamente, l’elaborazione mentale della strategia e del recupero di sé attraverso i ricordi viene affidata ad un montaggio che, talvolta, diventa lento, per creare una dimensione di attesa e, talaltra, si accelera e si riavvolge, cambiando anche inquadratura e collocando le telecamere nei punti più impensabili. Se si pensa alla sequenza d’apertura (quella in cui Ji-an e il suo amico Jeong-min sono assediati nella casa dello zio, con proiettili di varia provenienza che fischiano sopra le loro teste), cambia prospettiva ogni volta che viene riproposta, come le telecamere volessero riprenderla dal punto di vista di ogni personaggio coinvolto, ma anche dal punto di vista degli oggetti stessi presenti sulla scena (i proiettili sospesi in aria da cui riparte la ripresa), in una ricostruzione quasi architettonica, che alterna i punti di fuga della prospettiva alle proiezioni ortogonali, alle sezioni di scomposizione di un quadro. Questa tecnica elaboratissima viene accompagnata narrativamente dall’uso di flashback e flashforward, che, allo stesso modo del montaggio scomposto, continuano a cambiare a seconda del punto di vista della narrazione (o del ricordo) e, quindi, anche a seconda della visione e dell’interpretazione personale di chi lo narra. Siamo di fronte alla scomposizione del narratore, che, pertanto, può fornire diverse versioni della narrazione, per cui diventa compito dello spettatore riuscire a riprendere le fila della storia e comprendere come sono andati veramente i fatti per arrivare al finale.
Una menzione speciale per i cattivi, perché non è facile mantenere la compostezza e la grandezza di cattivo in un universo già dominato da gente di malaffare di ogni sorta: lo spietato killer a sangue freddo Lee Seong-jo (interpretato da Seo Hyun-woo, visto come giornalista in Flower of Evil); il super criminale Bane, che sembra un villain da Studio Marvel in tutto e per tutto (interpretato da Jo Han-sun di Possessed e Abyss); il veterano Lee Yong-han, leader della Babylon, l’ex agenzia di mercenari di Jeong Jin-man (interpretato da Ahn Gil-kang, che ha recitato già al fianco di Lee Dong-wook in Tale of the Nine Tailed).
Senza fare spoiler sull’andamento della trama, occorre concludere assicurando che gli attori sono già coinvolti in un rinnovo contrattuale per una seconda stagione (perché, d’altronde, esiste un romanzo sequel scritto dallo stesso autore), per cui attendiamo con ansia il proseguimento delle avventure di Jeong Jin-man e Jeong Ji-an e la concretizzazione della loro vendetta, perché, per citare Quentin Tarantino, “La vendetta non è mai una strada dritta: è una foresta. E in una foresta è facile smarrirsi. Non sai dove sei né da dove sei partito” (Kill Bill).
Laura
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2 pensieri riguardo “A Shop for Killers (ovvero: etica della silenziosa fortezza)”