“Ci sono tanti mondi dentro lo stesso mondo”.
Si sveglia presto nel mattino di Tokyo, Hirayama. E inizia la sua routine. Ripiega con cura il suo futon, prepara la sua divisa del lavoro, si lava in un acquaio che condivide l’utilità del bagno alla frugalità della cucina, si veste, si pettina, mangia con parsimonia e in silenzio. Poi, controlla la luce e le foglie verdi dei suoi bonsai: li nutre d’acqua, spruzzando quelle foglie minuscole di sprazzi di vita nebulizzati. Esce, prende al distributore automatico una lattina di caffè americano solubile, mette in moto il suo furgoncino carico del materiale per il lavoro, chiude la portiera e apre la musica di un vecchio nastro, una di quelle musicassette che saltano fuori dagli anni ’70. Le note dei The Animals e della loro “The House of Rising Sun” risuonano come un graffio in quella brezza volatilizzata. Risuona calda la voce di Otis Redding in “[Sitting on] the Dock of the Bay“, malinconici e strascicati i Velvet Underground di “Pale Blue Eyes“. Solo frammenti in mezzo al traffico e al sole che tarda ad alzarsi fino all’arrivo sul luogo del lavoro.
Si sposta, Hirayama, in quel sottile luogo di tutti e di nessuno che unisce la luce al buio, l’aria pura all’odore stagnante dei bagni pubblici. Pulisce con cura i gabinetti, con il silenzio e la gratitudine di essere in vita in ogni momento, si muove tra disinfettanti e il verde dei parchi in cui queste anonime strutture accolgono persone diverse senza distinzioni. Si ferma, aspetta, rinizia a pulire, traccia la sua esistenza con una X in un gioco di tris su un foglio nascosto contro un anonimo contendente. Trattiene nei suoi occhi emozioni e parole che comprendono come un abbraccio tutta l’umanità e, poi, cerca la luce tra le fronde degli alberi secolari, la perfezione di un attimo, quella gloriosa danza che i raggi solari cristallizzano nel vento. Coglie momenti di fugace bellezza, attimi di lirica verde e solare e li cattura in immagini fotografiche.
Ruba la luce del cielo agli alberi, Hirayama, si nutre di clorofilla e di bellezza, mentre innalza silenzioso il suo inno di quieta esistenza. Torna carico del nutrimento che cielo e terra sanno dare a quei pochi eletti che lo cercano. Risuona arrogante “Sunday Afternoon” dei The Kinks, decisa e avvolgente “Redondo Beach” di Patti Smith, come un grido di attenzione solenne “Brown Eyed Girl” di Van Morrison. Ancora una volta stracci sbiaditi di canzoni già iniziate, nastri consumati che rimangono sulla pelle. Lascia il furgone, prende la bicicletta. Si lascia scivolare addosso la presenza del mondo che cerca e fugge, allo stesso tempo: il vento, il sole, la pioggia, l’aria immota, afosa e sudata di una città metropolitana dove gli esseri umani fingono di conoscersi, sempre più soli e vuoti nel propri isolamento.
Come prima ha cercato la luce, cerca il tempo, Hirayama, e, ancora una volta, lo cattura e lo dilata tra le abluzioni di un bagno tradizionale, le pagine di vecchi libri usati in una libreria, l’odore acido delle pellicole sviluppate delle foto, il vapore che sale dal brodo del ramen, il rumore dell’umanità nei sottopassi della metropolitana. Percepisce momenti, sentimenti, emozioni, frammenti di discorsi e di risate, dolori nascosti dietro sorrisi, lacrime trattenute e lasciate andare, voci di tono diverso che restano sospese nell’aria resa elettrica dal tifone. Risuona “[Walkin’ Thru The] Sleepy City” dei Rolling Stones, risuona soffusa e vellutata anche Nina Simone con “Feeling Good“.
Rientra a casa e sogna, Hirayama. Dorme pensando alla bellezza che vagava effimera in quegli attimi di luce tra le fronde, sogna in bianco e nero immagini che sono cariche di tutto il prisma ottico della luce. Risuona alta la voce di Sachiko Kanenobu in “Aoi Sakana“. Anche oggi è stata una giornata perfetta, apparentemente anonima nel suo angolo di osservatore segreto del mistero del tempo che scorre. Cadenza grave Lou Reed con “Perfect Day“.
Le giornate si ripetono così per Hirayama, tra la luce colta di giorno e trasposta di notte in visioni oniriche, il silenzio di un lavoro meccanico e ripetitivo, che lascia spazio e tempo all’anima di vagare in mezzo ai versi di una poesia. Eppure sono giornate perfette, quelle in cui la routine della quotidianità scorre e offre tutti i dettagli normali di una vita comune e, al tempo stesso, speciale. “Ma com’è che ti impegni così tanto in un lavoro così brutto?“, chiede il giovane collega a Hirayama, ignorando che questi ha ottenuto il potere di saper custodire frammenti di serenità in piccole parti infinitesimali di luce, che, poi, sparge nel resto della sua vita.
In apparenza, non accade nulla nella vita di ogni giorno del protagonista del film “Perfect Days“: nulla di esaltante e che porti al successo e a quella voracità di vivere freneticamente a cui siamo abituati. Non accadono grandi eventi, né fatti o azioni che vanno a ridefinire e rideterminare l’ordinario proseguire di un’esistenza piccola e comune. Hirayama percorre la città addormentata, così come i parchi dove sono disseminati i bagni pubblici, in punta dei piedi, facendo attenzione a non pestare l’ordinarietà quotidiana delle giornate. Ed è così che Wim Wenders ci regala un film perfetto, colmando quella “mancanza” che i suoi angeli de “Il cielo sopra Berlino” lamentavano, quella voragine tra la rarefatta perfezione del cielo e la carnale passionalità umana, tra il mondo di sopra e il mondo di sotto. Hirayama, interpretato, pacato e solitario, in modo meraviglioso dall’attore giapponese Kōji Yakusho (qui anche produttore esecutivo), è quel piccolo e ordinario umano del mondo di sotto che si è liberato delle aspirazioni al successo e della follia di superare ogni limite e coglie la luce proveniente dal mondo di sopra per rielaborarla in sogni e vita, coprendo la mancanza con la sua interezza e unendo, finalmente, quella frattura che umani e angeli sembravano provare. “Giochiamo a pestare le ombre?“, propone Hirayama a Tomoyama, ex marito malato della donna che gestisce il suo ristorante preferito, perché l’ombra non è altro che la proiezione della luce quando si rifrange sugli oggetti della terra: il cielo che discende e incontra l’umanità.
La bellezza e la fugacità del momento data dalla caduta dei raggi di luce sulla terra è catturata dagli alberi, esseri intermedi che elevano l’anima al cielo in un’aspirazione ascendente, una ricerca umana di identificazione nella Natura con la pratica giapponese del komorebi (di cui abbiamo parlato in un articolo dedicato nella rubrica Ore Giapponesi, che vi consigliamo di recuperare anche qui), il bagno della luce che filtra tra gli alberi e che immerge perfettamente l’animo umano all’armonia ripetuta e immota del mondo, quella della riflessione, dell’attesa, della riscoperta del tempo mancato e di quello trascorso a non fare nulla in particolare, senza corse né limiti imposti da raggiungere e travalicare, ipotecando un futuro che è al tempo stesso un presente di cui essere grati. Così nel dialogo tra la nipote e il protagonista a riscoprire l’unico modo possibile per prendere un minuscolo frammento di tempo effimero: “Da qui si arriva al mare? / Sì, al mare. / Ci andiamo? / Un’altra volta. / Un’altra volta, quando? / Un’altra volta è un’altra volta. / Quand’è un’altra volta? / Un’altra volta è un’altra volta. / Un’altra volta è un’altra volta. Adesso è adesso“.
“Perfect Days” è nato con l’intento di costruire un documentario sui bagni pubblici di Tokyo, ma quel genio di Wenders è riuscito a trasformarlo nella naturale continuazione della sua opera, dove rock’n’roll e creature angeliche riescono a trovare un connubio perfetto nella quotidianità. Girato in poco tempo e con mezzi ridotti all’osso, sceneggiato in divenire, quasi coniugando le battute alle rughe di espressione e agli sguardi malinconici del suo interprete, che non ha bisogno nemmeno di parlare, arricchito da camei diversificati di interpreti di pregio del cinema giapponese (su tutti Min Tanaka nei panni di un clochard quasi astratto, vero animo folle di Wenders, che danza alle prime luci del mattino e si muove insieme al film stesso), la pellicola è diventata una degli incassi maggiori al botteghino tra il 2023 e il 2024, ricevendo il Premio per la migliore interpretazione maschile al Festival di Cannes 2023 per Kōji Yakusho, oltre alla candidatura per l’Oscar come Miglior Film in Lingua Originale (giapponese) agli Academy Awards 2024.
Un plauso personale e speciale va a Donata Wenders, artista, fotografa e direttrice della fotografia della pellicola (nonché moglie di Wim Wenders), che è riuscita a ricostruire il komorebi filtrante tra le fronde verdi degli alberi nei sogni in bianco e nero del protagonista, creando quasi un teatro di ombre orientali, che impreziosiscono le visioni oniriche del film. Perché ogni giornata perfetta sia portata a compimento come una danza di luce nella natura.
Laura
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