“La sofferenza è un’ottima insegnante. Ma nessuno vorrebbe frequentare le sue lezioni”.
Choi Hong-hi (maestro coreano di arti marziali)
Vi è mai capitato di seguire strenuamente le Olimpiadi e, consultando internet e programmi televisivi vari, accertarvi della posizione del vostro Stato nella classifica generale? Ammettiamolo: lo facciamo tutti ogni quattro anni, come se in mezzo ai campi da gioco ci fossimo direttamente noi. Ebbene, non sfugge certo all’attenzione che la Corea del Sud, nelle sue ultime partecipazioni, si sia collocata ad una posizione di un certo riguardo nel medagliere, con un’eccellenza particolare nelle discipline di lotta, di scherma e di arco. Nella realtà, quest’affezione coreana per le discipline sportive connesse alle arti marziali non è così strana, né di recente data, ma affonda le proprie radici nella tradizione.
Sicuramente, quando si pensa alla Corea, viene in mente il suo sport più rappresentativo e caratteristico per eccellenza, il taekwondo. Ricordo che ne rimasi affascinata da piccola, quando ancora in Italia non c’era una grande conoscenza relativamente alla cultura coreana e il taekwondo veniva schiacciato nel mezzo delle classiche arti marziali provenienti da Oriente (soprattutto, karate e judo). Il taekwondo (태권도), all’epoca, mi sembrò un mondo nuovo e particolare, come uscito da un libro di fiabe, e, difatti, fu accolto come sport ufficiale olimpico solo a partire da Sydney 2000 (dopo essere stato introdotto come sport dimostrativo proprio alle Olimpiadi di Seoul del 1988), portando insieme una ventata di novità e di tradizione nelle discipline olimpiche. Tuttavia, nonostante sia divenuto quasi lo sport coreano d’eccellenza, la sua nascita è relativamente moderna, visto che risale agli anni ’40 del XX secolo, immediatamente dopo la fine dell’occupazione giapponese, che aveva vietato la pratica di qualsiasi arte marziale autoctona e di qualsiasi pratica sportiva legata alla tradizione coreana, in un tentativo di sradicamento culturale. Gli sforzi della dominazione giapponese si concentrarono, in particolare, sull’eliminazione del taekkyeon (ovvero “l’arte del piede che lotta”), un’arte marziale coreana molto antica, già praticata all’epoca dei Tre Regni (come testimoniato dalle pitture rinvenute nelle tombe) e pare cara alla casta guerriera dei Hwarang del regno di Silla, a metà tra l’autodifesa e la danza, fondata sull’aerobica e sulla leggerezza dei movimenti corporei e su un notevole utilizzo delle gambe (con i calci aerei). Per eliminare l’affezione dei coreani nei confronti dell’antenato del taekwondo, i giapponesi si prodigarono nel diffondere le proprie arti marziali e nel costruire numerose scuole che le insegnavano. Furono proprio queste scuole che, al termine della guerra, videro fiorire una commistione tra le arti marziali imparate dagli invasori, quelle importate dagli esuli tornati dalla Manciuria e la volontà di recuperare un’antica pratica sportiva rimasta vietata per tanto tempo. Il merito di aver unificato tutte le pratiche importate dalle arti marziali nipponiche con l’antica arte coreana del calci è attribuito al generale Choi Hong-hi, maestro di arti marziali, che ricevette dal presidente Syngman Rhee l’obbligo di introdurre gli schemi di questa nuova arte marziale all’interno dell’esercito coreano, imponendola ufficialmente con il nome di taekwondo nel 1955. Ad oggi la commistione di pratiche che caratterizzano questo sport emerge dalla presenza del calci, tipici dell’antica arte del taekkyeon, e dei pugni o dei colpi con le mani, tipici delle arti marziali nipponiche, tutto mediato dalla disciplina dell’armonia e del vivere civile derivante dall’etica confuciana e che si traduce nei principi fondamentali di cortesia, integrità, perseveranza, autocontrollo e spirito indomito.
Ma il taekwondo non è l’unica arte marziale relativamente recente, eppure connessa alla tradizione. Sempre negli anni ’40 del XX secolo e successivamente alla dominazione giapponese, fu codificata anche la pratica dell’hapkido (합기도), un’arte marziale ancora poco nota in Occidente, ma che unisce la coordinazione con l’energia interna (ovvero “l’arte dell’energia armoniosa”) ed è considerata la prima arte marziale moderna di tipo misto. Ispirandosi all’arte giapponese del Daitō-Ryū Aikijujūtsu e all’aikido, la sua pratica si focalizza sul centro del corpo dell’avversario, cercando di neutralizzarlo attraverso la sua stessa forza. Per questo motivo, può impiegare calci, diversi colpi derivanti dalle arti marziali (di punta o di taglio con la mano o con i gomiti), ma anche punti di pressione, leve, proiezioni, cadute, capriole e svincoli. Nella sua pratica, inoltre, è studiato anche l’utilizzo di alcune armi tradizionali coreane (come il Tan Bong, bastone corto con o senza corda, il Joong Bong, bastone medio, il Cian Bong, bastone lungo, il Kane o Cane o Tan Giang, bastone da passeggio, il Tan Gom, coltello, il Gum, spada, il Pho Bhak, corda o cintura), ma anche di molti altri oggetti di uso comune tenuti in mano o lanciati.
Le arti marziali coreane sono ancora in continua evoluzione. Colpite dal bando giapponese durante l’occupazione e costrette ad essere praticate nella clandestinità, hanno mantenuto la conservazione delle tecniche tradizionali solo come fattore culturale, mentre si sono trasformate attraverso quell’ibridazione tutta coreana, che tende ad accogliere trapianti esteri all’interno del proprio substrato culturale, mantenendo fortemente le proprie radici tradizionali. Oggi si stanno diffondendo anche le pratiche marziali di: Hwa Rang Do, che mischia pugilato, taekwondo, muay thai, leve dell’hapkido, proiezioni di judo e lotta a terra del brazilian ju-jitsu; Hwal Moo Do, che mescola l’antica arte del calci con la difesa personale; Kuk Sool Won, che si focalizza sul recupero della tradizione e della dimensione interiore.
La rinascita delle arti marziali tradizionali ha coinvolto anche le arti marziali per eccellenza dei guerrieri Hwarang, ovvero la spada e l’arco. Accanto alla scherma tradizionale (come disciplina olimpica), l’antica arte della spada coreana dell’Haidong Gumdo (해동 검도; letteralmente, “la via della spada del mare dell’Est”) combina il combattimento, la tecnica dell’estrazione e la tecnica del taglio della spada giapponese con le pratiche della spada dritta Jian, della sciabola Dao e dello spadone DaoDao di derivazione cinese, mischiandole alle proprie origini, risalenti all’epoca dei Tre Regni, senza dimenticare la tecnica mentale della meditazione e della respirazione, che si rifanno alle antiche pratiche meditative buddiste.
Per quanto riguarda il tiro con l’arco tradizionale, è forse oggi la disciplina sportiva più antica e quella che ha subito meno variazioni e meno ibridazioni, visto che la sua origine risale al V secolo a.C. e che, fino alle invasioni giapponesi del XVI secolo l’arco era anche l’arma principale utilizzata dall’esercito coreano. L’arco tradizionale coreano si chiama Gakgung (각궁) e, al contrario degli archi diffusi nel mondo, che sono generalmente ricurvi, è un arco riflesso: la sua curvatura a riposo forma una C, che offre una breve distanza tra i due flettenti. Questo implica libraggi molto alti, tiri lunghi e potenti e un’estrema precisione. Non c’è da stupirsi se guerrieri come i Hwarang lo preferissero spesso alla spada anche per la sua maggiore adattabilità per i lunghi percorsi a cavallo e per gli scatti. Quello che stupisce è che il suo recupero è oggi al centro di molte scuole di tiro con l’arco olimpico, proprio con la funzionalità di mantenere intatta la tradizione e aumentare l’esercizio ai fini delle competizioni (dove, infatti, la Corea del Sud eccelle particolarmente in tutto il mondo).
Infine, c’è un’ultima arte marziale tradizionale di cui è doveroso parlare, perché rimasta immutata nei secoli, nonostante i divieti giapponesi e le persecuzioni, priva di contaminazioni varie con altre discipline provenienti da altre culture. Il ssireum (o ssirŭm o 씨름) è forse l’arte più tradizionale, più antica e più connessa all’essenza stessa del popolo coreano, affondando le sue radici nell’epoca Goguryeo. Grazie al drama Like Flowers in Sand, si è diffusa oggi la conoscenza nel resto del mondo di questo tipo di lotta tradizionale coreana, che si basa sulla “tecnica del capovolgimento”, ovvero della neutralizzazione dell’avversario attraverso un ribaltamento dello stesso, anche nonostante la differenza di proporzioni. Braccia, gambe, dorso, ma soprattutto la posizione salda collaborano per rovesciare e far cadere l’avversario nella sabbia, dove si svolge la lotta, afferrandolo per il satpa, un pezzo di stoffa bianca che avvolge la vita, mentre, per logica opposta, vince colui che riesce a rimanere in piedi fino alla fine del combattimento. Mentre le arti marziali come il taekkyeon o la pratica di spada e arco facevano parte del background dei nobili guerrieri e, quindi, subirono una forte repressione da parte giapponese, il ssireum, seppur bandito perché parte della cultura tradizionale, era quasi impossibile da sradicare, perché concepito come divertimento del popolo e per il popolo, nato nella sabbia e quasi non codificato, ma appartenente all’anima dei più poveri. Come testimoniano le pitture tradizionali, il ssireum era il centro della festa del villaggio o, comunque, degli incontri che animavano i villaggi ed era visto come un incontro/scontro tra i giovani più forti e più promettenti della comunità: colui che riusciva vincitore negli incontri popolari veniva nominato changsa e riceveva in regalo un bue (che, nella cultura rurale antica, identificava la ricchezza). La rinascita delle antiche pratiche marziali coreane dopo la Seconda Guerra Mondiale ha coinvolto anche il ssireum, incrementando l’interesse nazionale, con una vera e propria codifica delle regole (e con i colori rossi e blu dei satpa per identificare i contendenti), un campionato e delle squadre. Tuttavia, la vera eco fortunata si è avuta negli anni ’80, quando maturò una vera e propria mania per gli incontri competitivi tra atleti professionisti di ssireum, grazie anche alla messa in onda in televisione. Proprio in questi anni, vinse più volte il titolo di Changsa (ovvero: il più forte) l’atleta Lee Man-ki, oggi docente universitario, politico e personalità pubblica molto nota in Corea, commentatore sportivo di ssireum con presenza fissa, che ha insegnato a diverse generazioni di coreani ad amare uno sport, che è anche pazienza, misura e studio delle posizioni giuste e dei momenti per agire, tattica lenta culminante in scatti momentanei, ma anche cuore di una cultura popolare che nessuno è riuscito a sottomettere.
Il ssireum è stato tratteggiato anche in un corto animato del 2014 (dal titolo “Ssireum“), diretto da Kwak Ki-hyun e presentato nel 2017 al Florence Korea Film Fest, proprio con lo scopo di diffondere una tradizione sportiva, che è anche culturale, al di fuori del territorio coreano.
Nel 2018 la lotta tradizionale del ssireum è stata iscritta nella lista rappresentativa del patrimonio immateriale dell’UNESCO su richiesta della Repubblica della Corea del Sud e della Repubblica Democratica Popolare della Corea del Nord, diventando oggi il primo patrimonio intangibile in comune delle due Coree. Perché è nella cultura e nella tradizione comune che è possibile superare le differenze ideologiche e politiche e il ssireum è, anzitutto, la tradizione comune di un unico popolo, al di là di qualsiasi divisione.
Laura
