“Gli umani sono gli esseri più spaventosi”.
Avvertenza necessaria: questo non è un drama per tutti i palati e/o per tutti gli stomaci. Tutt’al più che, a parlare di palati e di stomaci, mi sento quasi in colpa, a giudicare da ciò che avviene all’interno della trama. Ma, soprattutto, Strangers from Hell (타인은 지옥이다, anche noto col titolo Hell is Other People, ispirato all’omonimo webtoon di Kim Yong-ki) non è quel drama che può farvi passare piacevolmente notti insonni per scoprire se i protagonisti prendono quella determinata decisione per la propria felicità, perché, se di un’insonnia si può parlare qui dentro, si tratta di un lento e abissale incubo capace di trascinarvi nel ventre della notte e, poi, nei meandri più cupi della mente umana. Però, se non avete timore di horror/thriller inquietanti e psicologici, non vi sconvolge il sangue e le nefandezze umane e non vi hanno impressionato, in genere, saghe truculente in stile Hannibal, allora potete continuare a leggere questa recensione e iniziare a pensare ad un diversivo valido e di grande valore al classico romance che imperversa ovunque, supportato da due interpretazioni straordinarie di Im Si-wan (Run On, Summer Strike, Unlocked) e Lee Dong-wook (Goblin, Bad and Crazy, Tale of the Nine-Tailed), l’uno la nemesi dell’altro, l’opposto e il suo naturale completamento, che si fondono insieme e si annullano. E accendete alto lo stereo, ché la colonna sonora è composta dai The Rose e si ascolta a tutto volume.
Yoon Jong-woo (Im Si-wan) è un giovane laureato disoccupato, che arriva a Seoul, dove vive e lavora già la sua fidanzata Min Ji-eun (Kim Ji-eun di Again My Life e One Dollar Lawyer). Nonostante sia stato una promessa letteraria all’università, la carenza di conoscenze adeguate, la lunga pausa dovuta al servizio di leva e le ristrettezze economiche lo portano ad accontentarsi di un vessatissimo posto come stagista nella start-up di un vecchio compagno di studi, Shin Jae-ho (Cha Rae-hyoung di Hunt), mentre, non avendo soldi sufficienti per la caparra d’affitto, va ad alloggiare nel goshiwon della signora Eom Bok-soon (inquietante e comica, al tempo stesso, Lee Jung-eun di Parasite, Daily Dose of Sunshine e When the Camellia Blooms).
Penso che, a questo punto, tutti gli spettatori vorrebbero urlare a Jong-woo di fuggire lontano mille miglia, viste le condizioni del goshiwon, i bagni sporchi in comune, gli insetti e la cattiva pulizia delle stanze, le cose andate a male nel frigo, le pareti di carta e le porte che non si chiudono. Solo che Jong-woo è determinato a resistere almeno sei mesi, in modo da avere i soldi per affittare un vero appartamento, e, per questo motivo, decide di sopportare sia la strana ilarità della signora Eom, sia il fatiscente ostello, sia, infine, gli strani ospiti che lì vi vivono: i gemelli Byeon Deuk-jong e Byeon Deuk-soo (entrambi interpretati magistralmente da Park Jong-hwan, visto anche in Concrete Utopia), apparentemente due soggetti con un basso Q.I. e un riconosciuto ritardo mentale, noti al vicinato come piromani e uccisori anonimi di gatti; il maniaco Hong Nam-bok (altro personaggio inquietante interpretato da Lee Jong-ok, visto anche in Strong Girl Nam-soon), un imprenditore fallito, condannato agli arresti domiciliari – con tanto di braccialetto alla caviglia – per crimini sessuali e che guarda porno 24 ore su 24 con la porta aperta della stanza; lo schizofrenico Yoo Gi-hyeok (interpretato da Lee Hyun-wook, già villain di Song for the Bandits), che gioca con coltelli e accetta e minaccia continuamente il protagonista di morte assicurata; il malavitoso Ahn Hee-joong (il caratterista del momento Hyun Bong-sik, anche in Gyeongseong Creature e Destined with You), un noto criminale che si è rifugiato nell’anonimato per non farsi trovare da polizia e da bande che ha truffato.
In questo clima di pazzi, dove avvengono cose strane e aleggia un costante mistero, Jung-woo si sente continuamente minacciato, costantemente sulla difensiva e pronto ad attaccare chiunque gli voglia fare del male. Solo una persona sembra capirlo all’interno di questo oscuro goshiwon, Seo Moon-jo (grandioso nel bene e nel male Lee Dong-wook), un dentista pallido e allampanato, che ama vestirsi di bianco anche quando il suo lavoro non lo richiederebbe e che ha un’idea assolutamente estetica del crimine (e dell’antropofagia). Perché, naturalmente, tanto per non farsi ingannare dalle apparenze, in realtà, il dentista è il vero capo della piccola e squallida umanità criminale che vive nel goshiwon, tutti atrocemente emuli delle sue gesta, tutti riluttanti servitori dipendenti dalle sue richieste, ivi compreso il fatto di lasciare vivo Jung-woo, in cui il dentista vede un possibile allievo ed erede.
Perché forse nessuno vede quello che vede il dentista nell’esile e nervosa figura di Jung-woo e che risiede nelle oscurità della sua coscienza, in quelle plaghe buie dell’anima, in quel sottosuolo dostoevskjano che tutti vorremmo (e dovremmo) placare. Ci sono delle voragini profonde, insidiate nell’animo di Jung-woo e disseminate nei propri ricordi, delle forti emozioni di incosciente rabbia, quell’ira cieca che si vorrebbe urlare al mondo e che fa serrare i pugni e la mascella nel tentativo di trattenerla. Un vortice nascosto che solo il dentista riesce ad intuire: “In realtà, è meglio dire ciò che vuoi e comportarti come vuoi, invece di borbottare dentro te tutto: è molto più umano, non credi?”.
Nel frattempo, allertata da Jung-woo e unica a rendersi conto di strane e inquietanti sparizioni nei pressi di quell’oscuro goshiwon, la poliziotta So Jung-hwa (bravissima e sempre più convincente Ahn Eun-jin di The Good Bad Mother e My Dearest) inizia ad indagare sulle attività connesse agli abitanti del goshiwon e, in particolare, sul ruolo del dentista, intuendo in parte la sua ossessiva influenza verso Jung-woo.
Senza fare spoiler, posso dire che il finale è in parte quello che lo spettatore può aspettarsi e forse anche sperare. Perlomeno, così pare ad una primissima lettura, perché, in realtà, c’è molto di più, con quella dose di inaspettato e di sconvolgente che lascia senza parole e che dall’oscuro legame della rabbia fa passare a quell’altrettanto oscuro legame della creazione, quel filo di amore/odio che unisce il creatore alla propria creatura. Jung-woo è, anzitutto, uno scrittore o, perlomeno, tale vorrebbe diventare e tenta di portare avanti la stesura del suo romanzo giallo, ambientato in un goshiwon pieno di criminali e assassini: crea parole, fatti ed eventi, che sconfinano in uno spazio sospeso tra la finzione e la realtà, spazio occupato dalle pagine di un libro e dalle parole che scorrono veloci e senza comando (come quel “Muori” o “Uccidi” ripetuto nella schermata del suo portatile, come un ordine automatico che attiva il cervello). Moon-jo è, a modo suo, un creatore: costruisce protesi, ricostruisce denti e montature o le cambia completamente, ma, al tempo stesso, crea incubi che si insidiano nella psiche di coloro con cui vuole rapportarsi, tanto da diventare egli stesso un incubo, indipendentemente se sia o meno una figura reale, quel demone sospeso nel vuoto di un sogno tetro, che diventa costante oppressione, come nelle opere di Fuessli.
Ma è Jung-woo ad aver creato l’idea ipnotica di incubo che si personifica in Moon-jo o, al contrario, è Moon-jo a creare la nevrosi e la psicosi persistente destinate a trasformare per sempre l’animo di Jung-woo? In questo rapporto titanico che quasi riecheggia Frankenstein (soprattutto nel confronto tra i due durante l’ultimo episodio), creatore e creatura sfumano i propri contorni e si confondono fino a creare una quasi totale identificazione in un’etica malevola e agghiacciante, ma anche perfettamente estetica. “Lo so, tesoro. Sei il più grande capolavoro che abbia mai creato“, sussurra ogni notte Moon-jo a Jung-woo mentre sta dormendo.
Frankenstein, però, non è l’unico riferimento letterario che questo drama cela nella sua trama, anche se forse è quello che risalta di più agli occhi dello spettatore con quell’ossessivo rapporto morboso tra creatore e creatura. Il titolo che ha ispirato l’opera di Kim Yong-ki, infatti, si rifà ad una disambiguazione di una frase presente nell’opera teatrale di Jean-Paul Sartre A porte chiuse: “L’inferno sono gli altri” (ovvero “Hell is Other People“, il secondo titolo con cui è noto il webtoon, poi diventato drama). Per la verità, l’inferno sartriano è costituito da piccole cellette o stanze buie e prive di aria, in cui sono condannati a vivere per l’eternità i suoi tre protagonisti, in modo tale da essere l’uno carnefice e vittima al tempo stesso dell’altro, in un circolo vizioso di insofferente molestia, che rappresenta l’onnipresente giudizio della società, quel muro (per citare un’altra opera sartriana) che irrompe prepotente ad emarginare e limitare la libertà e che diventa, poi, il concetto stesso di condanna alla libertà (“Noi siamo condannati ad essere liberi“). Nelle parole di Garçin, uno dei personaggi dell’opera sartriana, sembra, in effetti, palese il rimando al ragionamento insonne e pieno di incubi di Jung-woo nel drama e la propria ammissione della tendenza buia del proprio carattere, quei meandri oscuri del sottosuolo della sua anima: “Niente palpebre, niente sonno, è un tutt’uno. Ma come farò a sopportarmi? Io ho un carattere molesto, e pensi un po’… ho l’abitudine di molestarmi. Ma io non posso molestarmi senza sosta. Laggiù, almeno, c’erano le notti. Avevo il sonno pesante. Per compensazione”.
Altro riferimento letterario molto palese è con il racconto lungo (o romanzo breve) La Metamorfosi di Franz Kafka, l’unico libro veramente citato all’interno del webtoon/drama, lettura costante del dentista Moon-jo, colui che ha già subito la metamorfosi del suo intimo e che è, al tempo stesso, scarafaggio e umano, mentre tenta di far realizzare a Jung-woo la sua vera natura: non a caso, la scena della lettura del libro alle sue vittime incatenate è segno di un auto svelamento di se stesso, una metamorfosi che si dispiega nelle pagine della letteratura, perché impossibile da notare nella società che è “sartrianamente” condannata ad una falsa e molesta libertà.
Nota finale: nella realtà, i goshiwon non sono dei luoghi così spaventosi come sembrano apparire in questo drama; più simili ad una via di mezzo tra pensione e ostello, di solito prevedono stanze molto piccole (di 8/12 metri quadri, se comprensive di bagno interno, anche di 4 metri quadri, se con i servizi in comune), una cucina accessibile da parte di tutti e alcuni spazi comuni (come le terrazze) e servono spesso da alloggi per universitari, per i più poveri o anche per coloro che si stanno preparando per il concorso pubblico, a causa delle loro condizioni economiche vantaggiose (quasi tutti gli affitti di case in Corea prevedono l’accensione di un vero e proprio mutuo in banca e il versamento di una caparra consistente, che possono essere evitate nei goshiwon) e anche a causa della loro fama di isolamento, per cui raramente gli abitanti socializzano fra loro e ciò permette momenti di solitudine per chi deve studiare. Ecco, forse non è la prima scelta che consiglio per un possibile soggiorno coreano, ma, in ogni caso, voglio tranquillizzare sul fatto che non c’è nulla da temere nei goshiwon. Negli studi dentistici, invece, un po’ sì.
P.S.: piccolo cameo di Noh Jon-hyun (Duty after School); si piange, ma ne vale la pena.
Laura
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5 pensieri riguardo “Strangers from Hell (ovvero: l’inferno dei vivi)”