Torna la rubrica “No Maria, io esco!”, questa volta incentrata sui migliori drama che sono riusciti nell’impresa di lasciare un segno indelebile dentro di noi, toccando le corde della nostra anima e facendoci finire in una valle di lacrime. Vi proponiamo quei drama da vedere con le istruzioni per la visione -ossia con la scorta di fazzoletti a portata di mano- scelti dalle amministratrici tra quelli recensiti da loro e che, a distanza di tempo, ancora sono in grado di emozionarci al solo ricordo per le tematiche affrontate.
Lor schiera ThirtyNine e Tomorrow… una nuova occasione per vivere
Non è stato facile scegliere i due drama dalla “lacrima sicura”. Partiamo dalla premessa che ci sono serie che entrano nel cuore in punta di piedi, piano piano, altre che ti travolgono fin dai primi secondi come un uragano. E c’è una cosa che accomuna questi due tipi di storie: entrambe riescono a commuoverci al punto che neanche Maria de Filippi riuscirebbe a resistere.
Il primo drama, forse quello che più mi ha scosso negli ultimi anni, è sicuramente Thirty-nine. Una storia delicata, dove fin dal primo episodio scopriamo che una delle protagoniste non arriverà alla fine e iniziamo a singhiozzare perché -volenti o nolenti- tutti noi ci siamo trovati ad un certo punto della vita in una situazione simile, con un familiare, un amico/a, costretto a lottare contro una malattia devastante, non sapendo come poterci muovere né come poterli aiutare. In questo caso, l’amica scopre durante il check-up annuale di esser malata di cancro al pancreas, già allo stadio terminale, e non vuole neanche provare alcuna terapia; la ragazza decide, infatti, di passare le ultime settimane che le restano a lasciare la sua impronta nel mondo, un bel ricordo di sè, realizzando i sogni delle sue amiche ma anche i propri. Questa è la parte che mi ha stesa, letteralmente. È inevitabile, ad un certo punto della propria vita, fare i conti con se stessi, confrontarci con ciò che sognavamo e quello che siamo diventati. E se alcuni di quei sogni sono impossibili (sì, sposare Babbo Natale è impossibile, sposare un IDOL ci si può sempre provare cit. Una delulu qualunque di nome Lor), altri possono invece trasformarsi da sassolini in pietre miliari, in piccole soddisfazioni che vanno a colmare i vuoti creati dalle nostre paure ed insicurezze che non ci hanno permesso di insistere a suo tempo nel provare a realizzarli (come cercare la madre naturale di una delle protagoniste o partecipare ad un’audizione come l’amica). Sappiamo tutti che la vita ha una durata limitata ma è solo quando ci ritroviamo in queste situazioni che prendiamo consapevolezza della sua fragilità, dello scandire del tempo e di quella data di scadenza a noi sconosciuta ma che c’è e bisogna prenderne atto. E allora forse è il caso di iniziare prima a realizzare quei piccoli sogni per cui vale la pena di lottare, anche solo per poter dire a noi stessi di aver provato e non avere rimpianti.
Più o meno sulla stessa lunghezza d’onda, con una tematica simile, si piazza Tomorrow, il drama che non mi aspettavo avesse una tale portata emotiva. Non c’è un singolo episodio nel quale non si può fare a meno di empatizzare con i protagonisti di turno, pronti a farla finita, che vengono salvati dal miglior team di Grim Reapers Anti-suicidio mai visto prima. È facile ritrovarsi nelle loro storie, commuoversi davanti all’episodio del cagnolino malato che vuole farla finita e per non far soffrire il suo “padrone” scappa di casa; o della storia delle “donne di conforto”; o, ancora quando trattano il tema della violenza sessuale che uccide la vittima lentamente, a più riprese, all’atto fisico e quando si arriva al processo con la stampa e l’opinione pubblica pronta a scagliarsi -la maggior parte delle volte- contro la vittima e non il carnefice.
Sono tematiche importanti, sempre attuali e familiari. Per questo vanno affrontate con il giusto spirito, prendendo consapevolezza che ci stanno dando la lezione più importante di tutte: la vita è una, va vissuta fino in fondo ma soprattutto non dobbiamo mai arrenderci con noi stessi e darci una nuova possibilità di esser felici e ricominciare a vivere. Questi sono i drama che più mi hanno fatto piangere, ho cercato di farmi la pelle dura nel frattempo ma non garantisco di non trovarne altri di questo genere in futuro! Siete avvisati….preparate un vagone di fazzoletti se volete guardarli!
Memoru Grace sceglie Just Between Lovers e Navillera… l’importanza dei ricordi
Entrambi questi drama hanno in comune una tematica a me molto cara, i ricordi. In entrambi i drama i protagonisti non sono dei vincenti, lottano, non si arrendono, vanno avanti attraverso sofferenze e quasi si annullano in quel dolore, in quel grido disperato di vita, perché hanno scontato la loro esistenza sopravvivendo al crollo di un centro commerciale, all’angoscia e al senso di colpa per essere sopravvissuti come in Just Between Lovers o alla vita in punta di piedi di un mite postino ormai in pensione che nutriva fin da piccolo il sogno della danza e che tanto la sua vita è stata ordinaria e monotona che adesso vuole cogliere ogni istante di lucidità e accelerare il ritmo per assaporare quel sogno accantonato in un cantuccio prima che l’oblio possa cancellare ogni memoria e inghiottire ogni ricordo, così uno dei due protagonisti di Navillera, dopo aver appreso di essere affetto da Alzheimer.
In Just Between Lovers, percorriamo un vero e proprio viaggio nelle anime di due ragazzi, Lee Kang-doo e Ha Moon-soo, sopravvissuti dodici anni prima al crollo di un centro commerciale in cui hanno perso rispettivamente il padre e la sorellina. Ha Moon-soo ha quasi voluto sotterrare i momenti più angoscianti del ricordo, mentre per Lee Kang-doo il ricordo è un incubo ricorrente, una ferita che sanguina e che ogni giorno gli rammenta che è vivo fisicamente, ma emotivamente qualcosa lo strozza in ogni momento, lo priva di qualsiasi sorriso, lo carica di collera e di dolore. I due ragazzi si incontrano dodici anni dopo il drammatico avvenimento, Kang-doo riconosce la ragazza, ma Moon-so non riconosce lui, l’incontro tra i due, però, è salvifico, inizia per entrambi un percorso di guarigione interiore, alla scoperta delle proprie ferite mai curate e al conforto delle proprie anime così sofferenti, ma così pure e splendide.
In Navillera, il tratto distintivo della storia è quello di partire dai propri sogni, proprio quelli che durante la vita non si sono mai realizzati. Il protagonista, Shim Deok-chul, un postino andato in pensione, ha dedicato tutta la sua vita al lavoro e alla famiglia, ma ha da sempre nutrito il sogno di danzare e decide di iscriversi ad un corso di danza classica, prima che la malattia di cui è affetto lo avvolga nelle tenebre della dimenticanza. Lee Chae-rok è un giovane ragazzo che ha abbandonato il mondo del calcio per esercitarsi a migliorare la danza e diventare un professionista, la madre ex ballerina di danza classica è morta anni prima e il padre, con il quale non va d’accordo, sta per uscire da prigione, ma per Chae-rok esiste solo la solitudine e il lasciarsi vivere con addosso solo una coperta di amarezza. Le strade di Shim Deok-chul e di Lee Chae-rok sono destinate ad incrociarsi, a capire l’uno i sogni dell’altro, a trovare un amico, quasi un nipote per Deok-chul e una famiglia per Chae-rok. La dignità della vita, il coraggio dei sogni, il rispetto tra generazioni, l’importanza della memoria, tutto in questo drama fa commuovere.
Il valore dei ricordi accomuna entrambi i drama, rendendoli dei piccoli preziosi capolavori indimenticabili.
Captain-in-Freckles opta per Move to Heaven e The Good Bad Mother… saper perdonare se stessi
Nella realtà, esistono diversi motivi per cui, talvolta, mi fiondo a guardare horror e thriller o quei prodotti in stile Squid Game, per cui servono stomaco, fegato, cuore e quant’altro, ma che preservano i dotti lacrimali. Uno dei motivi validi è proprio il fatto che non si è costretti a cadere in quel dolce e melanconico torpore che sanno trasmettere alcuni drama, che non solo riescono a farti piangere nel finale, ma ti fanno singhiozzare di filato dal primo all’ultimo frammento, costruendo delle scene quasi mute, che ti stringono in una morsa l’animo. E, per me, su tutti, eccellono il breve e intenso Move to Heaven (che, se avesse avuto anche solo due episodi in più, non mi avrebbe più fatto risalire dalla sedia) e l’indiscusso capolavoro The Good Bad Mother. Entrambi, inoltre, hanno l’aggravante di essere muniti di cast perfetti e di attori straordinariamente bravi, ma, soprattutto, di essere capeggiati da due interpreti che riescono a commuovermi non appena entrano in scena: Ji Jin-hee, che interpreta il padre del ragazzo nello spettro autistico protagonista di Move to Heaven, un attore che, quando caratterizza l’uomo probo, onesto e con alti principi morali, guarda con due occhi nostalgici da suscitare tutte le lacrime di questo mondo; Ra Mi-ran, che interpreta la pessima madre ideale del protagonista Lee Do-hyun in The Good Bad Mother, una di quelle rare attrici che, come Anna Magnani, non interpretano, ma vivono una storia, con lo sguardo, i gesti, le mani, le rughe, ogni più piccolo e intenso movimento e che iniziano a farti piangere dal primissimo momento in cui puntano gli occhi sulla cinepresa.
Entrambi i drama si aprono già con un tratto in comune, che garantisce quelle lacrime da primo episodio, per cui lo spettatore rimane allibito e attonito, conscio che sarà un momento iniziale, un forte sprone emotivo per dar il via alla storia e non potrà essere sempre tutto così (sbagliando di grosso, perché le lacrime prodotte successivamente saranno più copiose e variegate). Il primo episodio di Move to Heaven presenta l’agenzia della pulizia del lutto gestita da Han Joeng-woo (Ji Jin-hee, appunto) e da suo figlio Han Geu-ru (Tang Jung-sang) con un tatto e un’empatia unica e straordinaria, tanto da avvicinare immediatamente lo spettatore ai sentimenti e alle emozioni provate dai personaggi (il lutto dei genitori sordomuti che hanno perso il figlio per un incidente sul lavoro); in modo quasi speculare, anche The Good Bad Mother si apre presentando l’impresa agricola familiare della “fattoria felice” gestita da Jin Young-soon (Ra Mi-ran) e da suo marito Choi Hae-sik (Cho Jin-woong), due agricoltori ignari delle disonestà del mondo e ricchi solo di piccoli sogni, come quello di far crescere una famiglia felice. In entrambi i casi, il primo episodio si chiude con un grosso dramma che ridetermina e ricostruisce la trama, destabilizzando lo spettatore: in Move to Heaven, Han Jeong-woo, già sofferente di cuore, muore per un infarto improvviso e lascia il figlio orfano ad occuparsi del lutto degli altri; in The Good Bad Mother, Choi Hae-sik, credendo nella bontà intrinseca di coloro che volevano togliergli il terreno della fattoria, va a discutere con loro e viene barbaramente ucciso (con simulazione di un suicidio), lasciando da sola la moglie agli ultimi mesi di gravidanza. Quella squadra quasi familiare che era stata presentata da subito si frange e si spezza, sola di fronte al mondo e alla tristezza. Ed è qui che entra in gioco il terzo giocatore, lo zio Cho Sang-gu (Lee Je-hoon) in Move to Heaven e il figlio Choi Kang-ho (Lee Do-hyun) in The Good Bad Mother, due attori di una bravura tale che porteranno via un pezzo di anima e a cui sarà devoluto il carico della risoluzione della trama e una parte fondamentale del messaggio che il drama vuole portare avanti. Perché il trauma iniziale è solo il primo pretesto per la trama e porta ad immergersi nella ricerca di se stessi, ma anche della propria autoassoluzione e del proprio posto nel mondo (in Move to Heaven) e della capacità di perdonare e di tornare ad emozionarsi (in The Good Bad Mother).
Saper perdonare se stessi è forse la cosa più difficile da fare per qualsiasi essere umano, abituato a vestire una maschera di imperturbabile immutabilità e a nascondere i propri sentimenti e forse anche la propria umanità: in Move to Heaven, Cho Sang-gu, ex pugile, reo di omicidio colposo durante un incontro di boxe, si è automunito della maschera della persona abituata alla durezza e all’asprezza della vita, che ha eliminato qualsiasi fragilità umana, ma, incontrando il nipote, che, chiuso nel suo Asperger, ha difficoltà ad esprimere le proprie emozioni e che lo porta a conoscere il ricordo postumo di una fratellanza mancata, inizia a frangersi, mostrando la sua umanità; in The Good Bad Mother, Jin Young-soon, vedova, madre, imprenditrice lasciata da sola ad affrontare tutte le avversità, si veste della maschera della madre-drago, inflessibile e inamovibile nella sua severità nei confronti di un figlio, che deve essere educato ad essere un vincente e a non farsi prevaricare da nessuno, ma, quando il figlio torna bambino, dopo l’incidente, va a confliggere contro la se stessa del passato, pentendosi di non aver mai saputo porgere il proprio amore e boccheggiando per aggrapparsi alla sua seconda possibilità.
Tutti abbiamo vissuto dei traumi e la vita non è mai rosea, ma un lungo chiaroscuro costellato di qualche solitaria luce, ma tutti abbiamo diritto a fermarci, ritirarci in noi stessi e ripartire, scoprendo la possibilità di diventare persone nuove, ritrovando in noi l’empatia verso gli altri e l’amore per il futuro. Perché essere felici è la risposta migliore nei confronti di qualsiasi bruttura possiamo incontrare e la felicità dipende dalla capacità di riuscire a considerarci come esseri umani e di saperci auto-perdonare e chiedere perdono a coloro a cui abbiamo fatto del male. E anche dalla capacità di saper piangere ed emozionarci senza problemi, senza la paura di essere considerati piccoli e fragili, ma consapevoli della grandezza delle nostre lacrime, che sanno dire “mi dispiace”, “scusami”, “ti voglio bene”, che sanno mostrare risate e malinconia e che parlano di noi stessi, senza aver bisogno di parole. Piangere fa bene: aiuta la vista, attenua le sensazioni di dolore, tranquillizza l’animo e dà modo di liberarci dai pesi della tristezza e della depressione, ma soprattutto aiuta ad essere noi stessi con tutta la nostra effimera eppure splendida umanità.
Lor & Memoru Grace & Captain-in-Freckles
