The Good Bad Mother – Una pessima madre ideale (ovvero della memoria, del perdono e dell’amore alla fine del viaggio)

“La vita è una cosa così affascinante, di cui bisogna essere grati. Quando ti porta via qualcosa, te la restituisce con qualcos’altro”.

Se qualcuno mi dovesse chiedere a quale episodio di The Good Bad Mother ho iniziato a piangere, risponderei semplicemente “Sì”. Non c’è un inizio e nemmeno una fine all’onda di emozioni che questo drama riesce a scatenare tutte in una volta: si piange già al primo episodio, si piange all’ultimo episodio, ci si commuove diverse volte al dispiegarsi della storia, talvolta si singhiozza pure, talaltra si versano copiose lacrime silenti. Si rimane, alla fine, così, in quella dolce melanconica nostalgia dei ricordi e delle cose perdute e, cosa rara nel panorama dramoso asiatico, una volta conclusa la visione del drama, si vuole riniziare da capo, pervasi dalla commozione e circondati da personaggi che erano diventati oramai la propria famiglia, i propri vicini di casa, i compagni di un viaggio nel passato e nella variegata gamma di emozioni che ci rendono unici nel cammino, poveri e piccoli esseri umani con i nostri difetti e le nostre virtù, le nostre miserie e le nostre ricchezze. Onestamente, quando ci si avvicina al termine di questo percorso di 14 episodi, non si è nemmeno pronti a terminarlo, tanto i nostri bagagli sono ancora disfatti e il nostro carico emotivo è troppo pregnante. Non abbiamo ancora salutato gli amici, non siamo pronti ad aprire le porte del treno per mettere piede in terra, ci giriamo per un’ultima volta con un sorriso lento e fugace ad illuminarci il volto. The Good Bad Mother è un esempio di drama di rara perfezione, ma che non sa nemmeno di esserlo, tanto si avvicina al cuore degli spettatori in punta di piedi, umile, eppure altero nello stesso momento nella sua interezza e drammaticità narrativa, costituito da un caleidoscopio di fasi e momenti di vita che partono da quell’amore imperfetto nella sua perfezione che sta alla base del legame tra madre e figlio.

Si piange e ci si commuove, come si ride e si sorride, ci si arrabbia, si resta sgomenti, si ha paura, ci si mortifica, ci si allieta, si ripercorre il passato, ma non tutto in una volta, bensì in momenti diversi e sotto diversi punti di vista, si ama, si perdona, si chiede vendetta, si cerca una nuova occasione, si cade nel baratro dell’ira e della disperazione, si risale nella luce della speranza, si vive, in un attimo, tutta la bellezza umana.

Il titolo giustamente è un tributo all’assoluta protagonista femminile, la pessima e ideale madre, Jin Young-soon (una meravigliosa e incredibile Ra Mi-ran, già protagonista amata di Reply 1988), una donna rimasta presto vedova e con un bambino, proprietaria di una fattoria e di un allevamento di maiali che deve ancora prendere il decollo. Infatti, il marito (interpretato da Cho Jin Woong), mentre si trovava in pieno dissidio con la grossa compagnia Woobyeok per il possesso dei terreni della fattoria, è morto in circostanze misteriose, derubricate dalla procura come suicidio, e Young-soon si è trovata da sola ad affrontare i debiti, la gestione della fattoria, i vicini di terreno e gli abitanti del villaggio, che mal vedevano la costruzione di una porcilaia nella zona, e il dolore. Questa grande e sconosciuta piaga, che Young-soon si porta dietro come una ferita nascosta nell’anima, le dà la forza di rialzarsi, di lottare e di trasformarsi in quella madre inflessibile e dura che progetta per il figlio una vita di rivalsa, di studio e di successo, quasi come una risposta automatica a tutti gli abusi sofferti da lei e dal marito da parte dell’alta società. Il figlio, Choi Kang-ho, è un bambino intelligente e con una memoria prodigiosa, ma anche con una vita già costruita dalla sua pessima e ideale madre, che gli strappa i disegni, per mortificare le sue velleità artistiche, gli vieta di andare a pic-nic e a gite scolastiche, per paura di un incidente, gli impone ritmi serrati di studio, con poco cibo (perché mangiare tanto causa il sonno) e amicizie inesistenti (per evitare distrazioni). Choi Kang-ho, nella cerimonia del primo anno (per la verità, la cerimonia dei 100 giorni, secondo una tradizione orientale derivata dalla dottrina buddista), ha scelto, tra i tanti oggetti posti davanti dalla madre, un martelletto, ovunque simbolo di giustizia e di legge, e, quindi, secondo i calcoli materni, è destinato a diventare procuratore e a risolvere quelle ingiustizie che hanno portato alla morte il padre, senza alcuna possibilità di scendere a compromessi.

Ma ci sono cose che nemmeno la terribile Young-soon riesce a prevedere. Diventando grande, Choi Kang-ho (ora interpretato da Lee Do-hyun, attore che abbiamo amato molto in The Glory, Youth of May, Hotel Del Luna, 18 Again, Sweet Home, Melancholia… e che, insomma, non finiremo mai di recensire, perché, onestamente è uno degli attori più bravi del panorama sudcoreano) s’innamora della sua vecchia compagna di scuola Lee Mi-joo (interpretata da Ahn Eun-jin, la moglie dell’impiegato Kim in Kingdom), che lo supporta e lo sostiene indipendentemente da qualsiasi evento, perché sono destinati a fidarsi l’un l’altro, vivendo come reciproche spalle, e a credere sempre nelle proprie possibilità. Il loro amore è come una formula matematica, come una radice quadrata ricamata in una cravatta (10√2) e non conosce allontanamenti e rotture, perché, come per Mi-joo esiste solo Kang-ho, Kang-ho, potendo tornare a vivere, sceglierebbe sempre Mi-joo, anche inconsapevolmente.

Il fatto, però, è che lo spettatore impara a conoscere questi lati di Kang-ho solo col tempo e con gli innumerevoli flashback di cui è costellata la sceneggiatura, che sembra un album di famiglia pieno di foto, sfogliato durante una giornata di ricordi. Il Kang-ho che appare sulla scena, dopo averne seguito i primi passi durante l’infanzia e l’adolescenza, nei suoi dissidi con la madre e nel suo candido amore per Mi-joo, è un Kang-ho completamente diverso: diventato procuratore, ora è cinico, freddo, senza cuore e senza sorriso. Ignora le telefonate e le visite della madre, non torna più nel suo paese di campagna, ha interrotto qualsiasi legame con i vecchi amici (e con Mi-joo) ed è intento solo a costruirsi una solida posizione sociale e una carriera, tentando di farsi adottare legalmente dal boss della malefica Woobyeok, Song Woo-byeok (interpretato da Choi Moo-sung di Reply 1988) e di sposare Oh Ha-young (interpretata da Hong Bi-ra), figlia dell’ex procuratore, ora deputato e in corsa per diventare presidente Oh Tae-soo (straordinario Jung Woong-in, già visto in Vagabond, Chief of Staff e I Hear Your Voice, uno a cui i ruoli da cattivo vengono fuori molto bene). In tutto ciò, Kang-ho si reca dalla madre per farle conoscere la sua fidanzata e per tagliare per sempre i ponti con lei, rinnegando un nome e una famiglia che non si addicono più al suo nuovo percorso di vita. Se non fosse che, sulla strada del ritorno verso Seoul, Kang-ho rimane vittima di un terribile (e misterioso) incidente, in cui normalmente avrebbe dovuto perdere la vita. La terribile e severa madre è l’unica a correre al capezzale del figlio (mentre la potente famiglia della fidanzata apparentemente si eclissa) e, memore delle costrizioni a cui lo ha forzato in tutta la sua vita, prega perché possa riprendersi, in qualsiasi modo sia, perché la vita è molto più importante di qualsiasi carriera e di qualsiasi giustizia.

E Kang-ho si riprende. Lentamente, a piccoli e incerti passi, con minuscole conquiste della vita quotidiana. Kang-ho riapre gli occhi, abbandona l’ospedale immobilizzato in un letto, riesce a riacquistare l’uso della parola e la mobilità della parte superiore del corpo, inizia ad uscire da casa sulla sua sedia a rotelle. Solo che della sua mente brillante, che aveva fatto invidia a tutto il paese, non rimane quasi più nulla: i medici diagnosticano a Kang-ho una grave lesione cerebrale, che ha causato un ritardo cognitivo. Di fatto, Kang-ho ha un’età mentale di sette anni e come tale si comporta nella sua nuova seconda vita, più svagata, sognante e sensibile, più infantile e affettuosa della precedente, girando come un satellite intorno alla luce materna, mentre la madre, che ha sempre sofferto il suo passato comportamento nei confronti del figlio, vede questa nuova vita come una vera e propria nuova possibilità, un dono dal cielo sia per lei che per il figlio, che può aprire una nuova e radiosa esistenza, felice nell’ignorare gli spettri del passato e nell’anestetizzare i dolori di sempre. E qui i due attori protagonisti, madre e figlio, riescono a raggiungere dei vertici di intensità e di bravura che, già da soli, valgono la visione dell’intero drama (con uno sguardo di Lee Do-hyun, che da freddo e cinico nei primi episodi, si trasforma e si illumina in un personaggio che mi ha ricordato molto Forrest Gump). Sfido a non piangere quando la mente annebbiata di Kang-ho ricorda che, se mangia troppo, rischia di addormentarsi e non può studiare, mentre la madre gli chiede perdono e lo invita a mangiare tutto quello che vuole, oppure, quando Kang-ho inizia a camminare e la madre lo rivede piccolo, pronta ad accoglierlo tra le sue braccia, mentre il figlio è intento a compiere i suoi primi incerti passi nel mondo.

Young-soon inizia a costruire, passo passo, un nuovo legame con questo suo figlio gentile e infantile e tenta di istruirlo alla gestione della fattoria e della vita di ogni giorno, perché il figlio sia capace e indipendente anche quando lei non ci sarà più, mentre lo rieduca (letteralmente e anche in modo molto brusco) a riprendere tutta la mobilità, compreso quella delle gambe. Finalmente, si lascia andare da quella posizione arroccata e falsamente priva di dolore che l’aveva sostenuta durante la giovinezza e accetta questo suo nuovo figlio così com’è, con i suoi giochi all’aperto insieme ai due figli gemelli di Mi-joo (momenti che rimangono nel cuore quelli delle corse in sedia a rotelle con i due bambini) e il suo addestramento della maialina domestica Leonessa, con il sorriso perenne e le canzoni della buona notte. “C’è un detto: Una madre può sostituire qualsiasi cosa in questo mondo. Ma nulla può sostituire una madre” e Young-soon diventa nuovamente madre di quel figlio che sta rivivendo l’infanzia e che si attacca sempre di più a lei come a una montagna di cui non vuole mollare la presa. Finalmente, Young-soon si lascia andare a dimostrare tutto l’amore che, prima, aveva dovuto tenere nascosto, ma che, in realtà, è stata la vera linfa che ha nutrito la sua vita. E impara a conoscere anche quel figlio, che si era allontanato da lei durante gli anni di procuratore e i suoi terribili segreti. “La vera vendetta è dimenticare completamente ogni cosa, anche le ragioni per cui si cercava vendetta, e vivere una buona vita. Essere felici è la vera vendetta“, sostiene la madre quando capisce come la sua sete di giustizia per quello che era successo al marito abbia condizionato sempre la vita e le scelte del figlio.

Solo che Kang-ho è sempre stato volitivo e aveva appreso fino in fondo la lezione materna, perché “anche se i nostri corpi possono essere separati, il mio cuore rimarrà sempre qui, nei ricordi vissuti con mia mamma e mio papà“. E, in questo momento della trama dramedy, l’abilità di regista e sceneggiatore riprendono in mano quegli indizi crime e thriller disseminati qua e là e che riportano all’oscuro passato di Kang-ho e al dolore vissuto.

I maiali non sono mai stati animali sporchi, ma gli esseri umani, forse per la loro incredibile somiglianza, li hanno costretti a vivere in gabbie minuscole e stare vicini al proprio cibo e ai propri rifiuti, negando loro qualsiasi libertà e trasformando il loro odore corporeo in un olezzo che ha allontanato gli umani stessi – spiega la madre al figlio, come vera e propria metafora della società e delle sue ingiustizie. “Ma sai perché i maiali si rotolano? Visto che la loro testa è pesante e li costringe a guardare verso il basso, non possono vedere le stelle. Per cui si girano“.

Parafrasando la frase di Oscar Wilde, siamo tutti nel vicolo oscuro, ma alcuni di noi guardano le stelle. Viviamo come i maiali, limitati e costretti da chi si considera superiore a noi ad angusti e sporchi spazi, conviviamo con il nostro stesso lercio, nel fango del dolore e delle privazioni. La nostra testa pesa su un corpo incapace di muoversi. Eppure, aspiriamo a vedere le stelle, ad elevarci, ad uscire dal baratro in cui siamo stati precipitati. Aspiriamo alla giustizia, a veder brillare la lealtà dei nostri valori, alla considerazione, all’affetto. Cerchiamo di raggiungere la luce, ma non perché irraggiungibile, ma perché sappiamo che è la nostra naturale aspirazione. Viviamo come incastonati tra la memoria e la dimenticanza, in un oblio che è anche un riaccendersi di ricordi mai sopiti e di affetti rinnovati. Viaggiamo a metà strada tra la rabbia e l’amore, la vendetta e il perdono, dimidiati e perfetti noi stessi nella nostra imperfezione. Afferriamo la felicità e rischiamo di perdere ad ogni passo. Ci amiamo e non ci comprendiamo e ci esauriamo nel viaggio della nostra vita.

Una delle grandezze di questo drama consiste anche nel panorama umano che circonda le vite di Young-soon e Kang-ho, quel pittoresco piccolo villaggio di campagna e i suoi abitanti, che si contrappongono nella loro purezza e nella loro ingenuità alla malizia degli altolocati rappresentanti della società borghese di Seoul. Sono unici i dialoghi e le interazioni continue tra la riservata Jung Gum-ja (interpretata da Kang Mal-geum), donna abbandonata dal marito e madre di Mi-joo, inconsapevolmente migliore amica e confidente di Young-soon, la nervosa Park Sung-ae (interpretata da Seo Yi-sook di Start-Up e Do Do Sol Sol La La Sol), madre di un figlio ladro e convinta di essere continuamente punita dal mondo, e Song Yong-rak (interpretato da Kim Won-hae di Youth of May e The Law Cafè), il capo del villaggio che vanta la quantità zero di criminalità, ma che è sposato con una misteriosa donna con il volto perennemente ricoperto da una maschera di bellezza (interpretata da Park Bo-kyung). Così come sono unici i battibecchi dei due ipotetici e poco credibili killer che si trasformano in contadini (interpretati da Choi Sun-jin e Park Cheon) con il vecchio e involontario amico di Kang-ho, Bang Sam-sik (interpretato da un Yoo In-soo di Alchemy of Souls e All of Us Are Dead in splendida e istrionica forma), ladro poco furbo, pauroso e molto gentiluomo, che è uno dei personaggi più straordinari di questa serie.

Si tratta di piccoli ingredienti di umanità che impreziosiscono e gratificano il valore di questo drama, che si propone di raccontare una storia per narrare, in realtà, diverse storie di vita umana, di scalate sociali e di cadute, di amori profondi, come quello di una madre per suo figlio, ma anche quello di un figlio per un genitore che non ha mai potuto conoscere, che rischiano spesso di rimanere inespressi, in un estremo pudore di sentimenti.

Insomma, forse si è notato che considero questo drama uno dei lavori migliori di quest’anno 2023 e, al tempo stesso, uno dei drama più belli, più intensamente recitati e più gradevolmente scritti di sempre, una pietra miliare destinata ad entrare nelle agende di qualsiasi appassionato di drama (e non solo), un 10 e lode che consiglio di recuperare praticamente a tutti. Perché viviamo tutti così nel vicolo oscuro, ma siamo destinati a girarci per rimirare la bellezza delle stelle in cielo e cancellare, così, la bruttura dal nostro animo, forse tornando un po’ più gentili e spensierati, come i bambini quando fanno pace tra loro e vedono i sogni camminare al proprio fianco.

Consigliato sempre a tutti, con un giusto quantitativo di fazzoletti a portata di mano, che diventeranno rotoli di carta agli episodi 7, 8, 13 e 14 (vi avverto), ma che, nonostante tutto, sarete lieti di aver consumato.

Captain-in-Freckles