Goblin (ovvero della mistica e della poetica dell’amore e del destino tra cielo e terra)

La forza d’attrazione non è proporzionale alla massa / Una ragazza delicata come una viola / Una ragazza leggiadra come un petalo di fiore / Mi attirava a sé con una forza superiore a quella della Terra / In un solo istante / Come la mela di Newton / Caddi rotolando verso di lei / “Tum” risuonava / “Tum Tum” risuonava / Il mio cuore continuava a rimbalzare tra cielo e terra / Era il mio primo amore.

L’anime perfetto e il drama perfetto non esistono. Poi, però, esistono l’anime Akira e il drama Guardian: The Lonely and Great God, universalmente noto come Goblin, per cui è necessario declinare in un modo diverso il concetto di perfezione, o, meglio, è necessario sospenderla, congelarla e riprenderla, come in un sogno ad occhi aperti, dolcemente cullati in uno spazio atemporale tra cielo e terra, in una mistica sovradimensionale che riesamina il destino umano e divino ed eleva lo spettatore, che diventa quasi un lettore di antichi carteggi poetici, di disegni lievemente impressi con la china che rimangono nella mente come dagherrotipi. Perché Goblin è effettivamente un drama perfetto, ovvero una coincidenza felice e fortunata di tanti elementi che lo hanno posto di diritto nella prima posizione di tutti i drama, quasi l’apoteosi del genere K-drama stesso: un cast perfetto, capeggiato da Gong Yoo, l’attore più amato di Corea, e comprendente anche Lee Dong-wook, Kim Go-eun, Yoo In-na, Yoo Sung-jae, Lee El, tutti in stato di grazia; una fotografia e una scenografia spettacolari, che incastra una scena da poster dietro l’altra con la grazia dei piccoli dettagli (la foglia rossa di acero autunnale, il mazzo di fiori, la prima neve che cade quasi a rallenty); una sceneggiatura delicata e profonda, quasi un libro di poesia, che non perde mai di vista né la narrazione della storia né la trattazione psicologica dei personaggi e che riesce anche a spostarsi nel tempo e nello spazio con lieve compostezza; una colonna sonora che rimane sicuramente nelle corde dell’animo di tutti coloro che lo hanno guardato. Insomma, tutti gli elementi fondamentali che hanno reso Goblin un esperimento talmente vincente, da essere considerato il capostipite di un certo filone fantasy-romance, che continua ad essere sempre di grande successo (per cominciare con A Korean Odyssey, Mystic Pop Up Bar, ma anche il recentissimo Alchemy of Souls).

Ora, per poter recensire al meglio questo drama, che, all’epoca, avevo stra-adorato (tanto da farmi regalare una sciarpa rossa identica a quella della protagonista e avvolgermela intorno al collo nello stesso modo) e che, probabilmente, ha consacrato anche nel mio cervello Gong Yoo come una creatura leggiadra e immortale, che guarda in modo distaccato e compassionevole gli umani sopra i tetti come l’angelo Cassiel nel meraviglioso film Il cielo sopra Berlino, ho deciso di guardare nuovamente questo drama, stavolta senza la frenesia di scoprire il finale dei personaggi, ma con la stessa soave lentezza con cui si sviluppa piano piano la storia d’amore principale. E sì, mi è piaciuto come la prima volta ed ho adorato nuovamente le foglie di acero tra i libri e Gong Yoo che recita poesie come se fosse al teatro; forse, però, ho apprezzato di più la storia tra i due secondari, che, alla seconda visione, per me hanno spesso rubato la scena ai protagonisti; e, probabilmente, eliminate oramai le lacrime della prima visione, ho avuto anche da ridire di più sul finale (nel senso che, per me, era perfetto fino al 13esimo episodio) e su diversi altri particolari che, talvolta, mi hanno infastidito e mi hanno fatto esclamare un “perché siete stati così crudeli?“. Ma non vi parlerò di questo secondo impatto e cercherò di essere il più obiettiva possibile.

Epoca Goryeo. Kim Shin (il sempre eterno Gong Yoo, a cui basterebbe anche solo un’apparizione dei 15 minuti di Andy Warhol per portare la gloria in un drama e il suo reclutatore in metropolitana di Squid Game ne è una dimostrazione) è un potente, superbo e feroce generale (per la verità, la storia ce lo presenta immediatamente come potente e superbo, mentre apprenderemo della sua ferocia solo con il trascorrere degli episodi), a cui il Re ha affidato la supervisione del giovane figlio, troppo acerbo e inesperto per salire al trono. Infatti, quando avviene la sua incoronazione, il giovane re è talmente immaturo da farsi manipolare dall’eunuco di corte Park Jung-heon (interpretato dal bravissimo Kim Byung-chul di Non siamo più vivi, che, in questi ruoli un po’ gotici e un po’ orridi ci va quasi a nozze e che all’epoca sbancò i premi proprio per questo super cattivo), nella realtà quell’eminenza grigia e plenipotenziaria che gestisce ogni cosa e che gli insinua nella mente l’invidia e il timore per la figura di Kim Shin, tanto da portarlo quasi a condannarlo a morte certa in guerra. Kim Shin, invece, ritorna incolume e, anzi, con un carico di gloria da essere quasi considerato il re dal popolo, per cui si condanna da solo a morte certa come traditore della patria: crivellato di colpi e ucciso, infine, dal suo attendente con la sua stessa temibile spada, dopo aver assistito alla morte della sorella (che, tra l’altro, aveva sposato il re), invoca Dio in punto di morte, quasi a maledire i suoi nemici. Solo che i disegni divini sono imperscrutabili e Kim Shin torna in vita come un immortale Dokkaebi, figura mitica del folklore leggendario coreano (e non solo), che da noi è stata erroneamente tradotta in Goblin, ma che, in realtà, sarebbe più vicina ad uno spirito guardiano, a metà tra la divinità compassionevole che vive tra gli umani e l’angelo custode che ascolta i loro desideri e i loro timori. Kim Shin vive così per anni (940 per la precisione), come un dio splendente e solitario, con la spada che gli ha inflitto la morte conficcata nel petto, in attesa della sua Sposa, l’unica in grado di liberarlo dal sortilegio e di donargli la pace eterna. Un giorno, vede una donna moribonda in mezzo alla neve e, sentendola supplicare non tanto per la sua vita, quanto per quella della creatura che porta in grembo, decide di salvarla, beffando doppiamente la morte: quella bambina, infatti, non solo recherà il marchio della mano del Goblin sul suo collo, ma, nel corso degli anni, si rivelerà anche essere la sua Sposa, ovvero l’Anima Perduta Ji Eun-tak (interpretata da Kim Go-eun di Little Women e The King: Eternal Monarch), una ragazza capace di interagire con fantasmi di ogni tipo. Quando Ji Eun-tak ha 19 anni s’imbatte nuovamente nel Goblin e, in modo quasi inspiegabile come un’intuizione che viene dal cielo, lo riconosce e, nel vederlo, riconosce se stessa, come un rapporto per cui le anime predestinate non fanno altro che trovarsi e guardarsi l’un l’altro per capirsi e per capire il proprio intimo (come la Catherine di Cime Tempestose quando sospira il suo “Io sono Heathcliff“). Mentre il Goblin tenta di tenere la distanza dalla sua Sposa, lei lo cerca e lo intorta in tutti i modi con la convinzione di essere l’unica e sola Sposa a lui predestinata dalle divinità, l’unica in grado di liberarlo dalla maledizione anche a costo della vita.

In tutto questo, però, Yoo Deok-hwa (Yook Sung-jae di Mystic Pop Up Bar, che qui, nella mia seconda visione, è stato uno dei miei personaggi preferiti), discendente della famiglia che da secoli si occupa del Goblin, affitta la casa di Kim Shin ad un altro strano personaggio, uno di quelli che non solo sono vestiti di nero, ma lo amano pure e che sembra uscito direttamente da una fiaba gotica (o da un film di Tim Burton): si tratta del Triste Mietitore senza nome e senza ricordi, perché lui stesso ha scelto di dimenticarli, come si evincerà nel corso degli episodi, a cui è sfuggita sempre l’Anima Perduta e che non pare avere in grande simpatia Goblin (Mietitore interpretato dall’altro grandissimo attore Lee Dong-wook, da recuperare anche in Scent of a Woman, Bad and Crazy e tantissimi altri lavori). In realtà, anche il Triste Mietitore è, in qualche modo, legato al Goblin, alla sua Sposa e a Kim Sun, detta Sunny (la Yoo In-na di Touch Your Heart e Snowdrop), titolare del ristorante dove lavora Eun-tak e reincarnazione della sorella di Kim Shin.

Nella visione mistica e quasi catto-buddista di questo drama (che mischia sapientemente elementi della tradizione taoista e sciamanica con i precetti del buddismo e con l’iconografia cristiana), ogni anima ha a disposizione quattro vite, prima di evolversi e di essere pronta per l’aldilà e non sempre si ha la fortuna di reincarnarsi con lo stesso aspetto, così come non sempre si è a conoscenza dei propri ricordi della vita passata (visto che le anime bevono il tè dell’oblio offerto dai Mietitori durante il passaggio tra la vita e la morte). Incroci mistici, rivoluzioni quasi solari e viaggi karmici che, come spiega l’apparizione quasi rossa della Samshin (interpretata dalla bravissima Lee El, la segretaria-cane di A Korean Odyssey e la sorella maggiore di My Liberation Notes), creatura una e trina, simbolica sia dell’universo taoista che di quello buddista e che collega l’essere umano al cielo che presidia al mondo del passaggio tra la dimensione umana e quella ultraterrena (per vedere una spiegazione più completa della vecchia Samshin, riferirsi a Mystic Pop Up Bar), sono dei veri e propri incontri cosmici, predefiniti e predestinati dall’imperscrutabile volontà di un disegno divino, con cui talvolta gli esseri umani (e non solo) vanno a confliggere, ma che finiscono ad accettare come l’inevitabile e logico destino, quel sottile filo rosso della vita e della morte a cui siamo tutti legati (da cui la simbologia della sciarpa rossa e la collanina con la scritta Destiny che il Goblin dona alla sua Sposa).

Quel filo del destino, sospeso tra cielo e terra, si concretizza in una mistica e in una poetica dell’amore, che si eleva e va oltre qualsiasi dimensione temporale e locale: è l’Amore che attraversa le vite e collega le anime, che salva e trasforma, assolve e trasfigura, rende impotenti e minuscoli, ma anche grandiosi nella vittoria, fa soffrire e fa gioire e che rende l’attesa una stanza di intima lietezza. “Se anche dovessero passare 100 anni, io sarò lì ad attenderti (…). Ogni momento trascorso con te risplende. Perché il tempo era bello, perché il tempo era brutto, perché il tempo era abbastanza gradevole. Ho amato ogni momento“.

Le emozioni che riesce a suscitare e a creare questo drama sono molteplici ed è quasi impossibile metterle tutte per iscritto, come è impossibile non circondarsi da un quantitativo sostanziale di fazzoletti di ogni tipo e crogiolarsi dolcemente in una sorta di tepore interiore, ripensando alle parole poetiche, alla mistica dei sentimenti e dei legami e al linguaggio altisonante dei monologhi dei personaggi, il tutto condito da una lirica di immagini e di pensieri, lenta come il cadere delle foglie da un albero.

Attenzione, però: non è un drama di solo pianto e momenti trascendentali, perché la grandezza della sceneggiatura sta anche nel riuscire a dosare e a calibrare tanti diversi particolari, che, in qualche modo, umanizzano ogni singolo personaggio, magari anche creando siparietti quasi comici e dialoghi brillanti (da non perdere le diatribe tra il Goblin e il Triste Mietitore, così irresistibili, da desiderare quasi una serie solo dedicata a loro).

Consigliato: a tutti, perché Goblin è una tappa obbligatoria per qualsiasi dramista e oserei dire che dovrebbe essere una tappa obbligatoria anche per chi non è dramista e perché lo scorrere del tempo e il muoversi del cielo acquisiscono una valenza completamente diversa, quando li guardiamo con gli occhi di Kim Shin (o anche con quelli di Eun-tak).

Captain-in-Freckles

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