Le buone stelle – Broker: una piccola famiglia particolare

“Grazie per essere venuto al mondo”

Attendevo di vedere questo film da quando a maggio ho ammirato il red carpet del Festival di Cannes e ho approvato immediatamente, quasi d’istinto, l’attribuzione del premio per la migliore interpretazione maschile a quel monumento del cinema coreano che è Song Kang-ho, già protagonista straordinario di Parasite e interprete di tante numerose pellicole (come Memorie di un assassino, The Drug King, A Taxi Driver, The Host, ma anche Sympathy for Mr. Vegeance e Lady Vendetta della pluripremiata trilogia sulla vendetta del Park Chan-wook di Old Boy, tanto per citare qualche titolo). Attendevo con ansia l’uscita di questo film, sul quale nutrivo grandi aspettative, che sono state soddisfatte in pieno – con corredamento di un certo quantitativo di fazzoletti – perché Le buone stelle – Broker (브로커, Beurokeo) è una grande storia di piccole persone, anime allo sbando di amari ricordi passati, legati da un affetto gentile e delicato, una famiglia “elettiva”, come solo i sentimenti possono aiutare a creare.

Durante una notte di pioggia tropicale a Busan, So-young, una ragazza sola e impaurita con due enormi occhi tristi (interpretata dalla sempre meravigliosa Lee Ji-eun, in arte IU, da recuperare assolutamente nei drama Moon Lovers Scarlet Heart Ryeo, Hotel Del Luna e Persona), abbandona il figlio neonato in una baby box davanti ad una chiesa, sperando di dargli un futuro migliore, magari senza la propria influenza negativa. Le sue azioni sono osservate da due agenti di polizia che si occupano di questioni sociali e di minori: la cinica e amareggiata Soo-jin (la bravissima e intelligente Bae Doona, protagonista di The Silent Sea e Kingdom), che non può avere figli propri, e la giovane ed empatica Lee (l’altrettanto brava Lee Joo-young, che, dopo i ruoli minori in Itaewon Class e Something in the Rain, riconferma il mio giudizio positivo su di lei). Le due, celate in un’auto, seguono il dramma della giovane madre con un misto di tristezza e di rancore per cercare di intercettare una rete di “broker”, ovvero di trafficanti di minori che gestiscono adozioni illegali in tutto il Paese. Quella stessa notte, Dong-soo (interpretato da Gang Dong-won, visto già nei film d’azione Peninsula e Ilang – Uomini e lupi), un trentenne con un passato da orfano che lavora come assistente nell’orfanotrofio della parrocchia, e Sang-hyeon (Song Kang-ho), un uomo pieno di debiti e cacciato dalla propria famiglia, che si mantiene gestendo una piccola lavanderia/sartoria, rapiscono il bambino lasciato nella baby box con l’intenzione di cercargli una nuova famiglia, dandogli un futuro che altrimenti gli sarebbe negato (secondo le intenzioni di Dong-soo) e ricavando anche i proventi economici per ripagare tutte le spese in sospeso (secondo il progetto di Sang-hyeon). Per la verità, i due non sono nuovi a questo traffico: sono da tempo in società nelle adozioni illegali di minori e da tempo sono anche nel mirino del detective Soo-jin, che non interviene nel ratto di minore per poter proseguire le indagini. I due “broker” organizzano un viaggio in giro per la Corea del Sud in cerca di nuovi genitori, ma, improvvisamente, So-young, dilaniata dai sensi di colpa e da un amore intimo e viscerale per la sua creatura, che lei stessa prova a negare, si presenta in chiesa per riprendere il suo bambino e, appreso del progetto di Dong-soo e Sang-hyeon, decide di unirsi a loro nella ricerca di una famiglia per il neonato, forse anche di una speranza, che non è in grado di offrire. Al gruppo si unisce pure un piccolo orfano con uno zaino e un pallone da calcio malandato, il cui obiettivo è farsi adottare, ma che sa di essere troppo grande per le famiglie in cerca di figli. A bordo di un furgone malandato e carico dei vestiti da rammendare di Sang-hyeon, così, questo piccolo gruppo strampalato e male assortito parte, inseguito dalle due detective, alla ricerca di un futuro per il neonato, salvo trovare, lungo il cammino, un presente per se stessi. E, così, questi sconosciuti, che non avrebbero niente in comune, se non ognuno il suo bagaglio di un triste e amaro passato, costruiscono un legame che è quanto di più simile possa essere ad una famiglia. Non, però, la famiglia di nascita, da cui ognuno di loro è stato rifiutato, ma una famiglia di elezione, creata sulla base delle affinità che li legano e del dolore che li avvicina e li rende l’uno la sponda emotiva dell’altro.

Le emozioni non mancano in questa pellicola delicata e gentile, che diventa quasi un inno alla vita gentile ai buoni sentimenti e un’elegia alle persone comuni, magari goffe e insignificanti o messe in un angolo dalla società, ma depositarie di una ricchezza interiore che viene restituita in ogni singolo frammento di questa storia: la maternità, scoperta in due fasi diverse dal detective Soo-jin e dalla giovane So-young e celata nell’altruismo di dare la vita anche a costo di uccidere, la compassione che declina il senso di giustizia del detective Lee, la paternità come la volontà di costruire un futuro migliore di Dong-soo e di immolarsi a protezione degli altri di Sang-hyeon, l’amore che trascende ogni cosa e che si concretizza ringraziandosi l’un l’altro perché si è al mondo, perché la presenza di ognuno aiuta e sostiene l’altro nella dura lotta quotidiana della vita. Allora, quel “grazie per essere venuto al mondo” acquisisce un significato ampio che va al di là anche del rapporto tra So-young e quel bambino neonato per la cui vita ha lottato tanto: è un “grazie” molto più recondito, di una benevolenza profonda, che diventa simbolo dei legami affettivi e quasi familiari contro un mondo che cade nella dissoluzione morale e che riscatta e salva dalla bruttura sociale i protagonisti, i quali si sono trovati a soffrire le ferite del cinismo della società, ma che insieme scoprono la grazia di stare al mondo.

Il regista giapponese Hirokazu Kore-eda, che non è nuovo a piccole narrazioni di sentimenti (ne è un esempio il suo film più famoso, Un affare di famiglia, che vinse la Palma d’Oro a Cannes nel 2018, incantando e commuovendo tutto il mondo), compie questa trasferta in terra coreana, lasciando immutato il suo stile lento e delicato come un fiore di ciliegio che accarezza il cuore dello spettatore e toccando le corde emotive giuste. Con un tratteggio intimista e quasi neorealista, con cui viene descritta una fetta di mondo ai margini della società, spiccano personaggi che si salvano per la riscoperta di un legame familiare, visto come un’appartenenza reciproca, un senso di unità che oggi si tende sempre più a sopprimere (“Non sarebbe bello se avessi un ombrello? … Sì, un grande ombrello. Qualcosa che due persone insieme possono usare“). La narrazione è inserita quasi in un gioco ossimorico, dove, sul fondo di una tragedia, spunta l’umorismo, e su una storia dura e violenta risaltano l’empatia, la bontà e la sensibilità umana, che cerca la speranza, come una magia che può dissolvere i tormenti di cui è stata caricata (“Desidererei poter riniziare di nuovo tutto daccapo, ma ormai non è possibile“, confessa la giovane So-young sulla ruota panoramica a Dong-soo che le risponde: “Vederti mi fa sentire il cuore un po’ più leggero“).

Non bisogna dimenticare che l’opera è anche un enorme dramma sociale , che, pur mantenendo lo stile intimista ed emotivo tipico di Kore-eda, invita a riflettere su una serie di problemi e di dilemmi, che richiederebbero risposte urgenti e pregnanti e, soprattutto, una presenza più costante da parte delle istituzioni: il problema di giovani madre abbandonate dalla società e costrette, a loro volta, ad abbandonare i propri figli, la criminalità che si inserisce nel tessuto sociale, la tolleranza nei confronti della prostituzione, la miseria – anche morale – diffusa e, al tempo stesso, la fredda distanza della legge. Perché, parafrasando Victor Hugo, è facile prendersela con il colpo di fulmine, senza chiedersi chi ha ammassato prima le nuvole.

Consigliato: a tutti, perché “Le buone stelle – Broker” è una denuncia pacata, ma decisa, che fa bene al cuore e alla mente e che fa uscire dalla sala del cinema magari con meno liquidi in corpo, persi durante il pianto, ma più arricchiti interiormente. Inoltre, aggiungete che la fotografia è un piccolo gioiello di Hong Kyung-pyo, già direttore della fotografia di “Parasite”, e che le musiche originali sono di Jung Jae-il, autore della colonna sonora di “Parasite” e di “Squid Game”.

Captain-in-Freckles

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