“C’erano una volta tre bambini a cui una strega cattiva aveva rubato la faccia: un ragazzo che indossava una maschera falsa e sempre sorridente, una principessa rumorosa e vuota come una lattina e un uomo che aveva la testa imprigionata in una scatola di cartone“.
Mi trovo davanti ad un’impresa ardua: far capire perché la serie coreana in 16 episodi It’s Okay to Not Be Okay (letteralmente: “È folle ma non importa”) sia, a mio avviso, una delle migliori serie prodotte di recente.
La trama è complessa e comprende diverse sottotrame e registri narrativi che vanno dal dramma psicologico alla commedia romantica, dal thriller alla fiaba gotica, con un sapiente utilizzo di flashback, dialoghi e spazi di silenzio (dove recitano solo gli occhi). La storyline principale è basata sull’incontro-scontro tra la scrittrice di libri per l’infanzia Ko Moon-young (interpretata da Seo Ye-ji), sofferente un disturbo antisociale della personalità e tendente a scatti d’ira e all’offesa gratuita nei confronti dell’umanità, e l’infermiere di un istituto psichiatrico Moon Gang-tae (interpretato da Kim Soo-hyun), che si occupa sin dall’infanzia del fratello Moon Sang-tae (interpretato da Oh Jung-se), affetto da un disturbo dello spettro autistico e testimone di un omicidio, e che è incline ad una forte empatia nei confronti dei suoi pazienti. Intorno a loro, si muove una pletora di personaggi di ogni tipo, ognuno con la sua tragica piccola storia: il direttore dell’ospedale psichiatrico (Lee Eol) con la sua compassione e i suoi rimedi alternativi; l’editore in quasi fallimento della protagonista (Kim Joo-hun) con la sua svagata direttrice artistica (Park Jin-joo); il migliore amico del protagonista (Kang Ki-doong), che vive da anni nella sua ombra come un fratello maggiore acquisito; la collega infermiera (Park Gyu-young), innamorata respinta, e la sua energica madre (Kim Mi-kyung); i pazienti dell’ospedale psichiatrico, ognuno impegnato a fronteggiare i propri demoni interiori e a superare le proprie angosce e le proprie paure in vista di una guarigione.
A fare da cornice e da intermezzo, come metafora stessa della storia, una fiaba gotica, dove tutti sono gli attori e dove le paure si trasformano in mostri che rubano le facce, ovvero le emozioni, i timori, i sentimenti, ma soprattutto la felicità. E, in questa lotta per riprendersi il sorriso, ognuno capisce l’importanza dell’altro e la necessità di affrontare il male insieme, come una vera famiglia.
Se gran parte delle serie odierne tenta di scandagliare l’animo dei personaggi per arrivare a comprenderne i lati oscuri, It’s Okay To Not Be Okay si pone l’obiettivo contrario, ovvero quello di mettere a nudo le anime umane per ritrovare i suoi lati di chiarore che l’oscurità spesso imprigiona ed opprime. In questo, viviamo tutti come relegati, con una scatola di cartone sulla testa ad impedirci i movimenti e a schermarci le emozioni e il rapporto con i nostri simili. Viviamo come Sang-tae, ingabbiato nel suo spettro autistico e costretto a non capire le espressioni facciali, come inseguito dalle farfalle (che, non a caso, in greco antico sono indicate dalla parole “psyché”). Viviamo come Moon-young, svuotata dalla sue emozioni e incapace di provare sentimenti, come una lattina vuota che fa solo rumore. Viviamo come Gang-tae, con un sorriso stampato in volto come una maschera, pronto ad ingannare il mondo con una parodia del suo benessere personale. Tre animi fragili e umani, provati da esperienze traumatiche dell’infanzia, eppure così splendidi nel fugare gli incubi gli uni degli altri, uniti nel crescere insieme. È proprio questo splendore della fragilità dei tre protagonisti, dei tre bambini della fiaba, che illumina anche il percorso di formazione e di superamento delle difficoltà degli altri personaggi.
Un plauso va alla penna e all’inventiva della showrunner Jo Yong, che in Corea del Sud ha ideato alcune delle serie più apprezzate dalla critica. Un apprezzamento alla regia di Park Shin-woo, alla scenografia gotica, alla fotografia che inserisce dei momenti d’animazione alla Tim Burton, alla perfetta colonna sonora a piano, ai costumisti (per favore, indicatemi dove Moon-young compra i suo abiti meravigliosi!). Una lode va a tutto il cast e, su tutti, ai tre protagonisti: Kim Soo-hyun nel ruolo del gentile e premuroso Gang-tae, Seo Yea-ji nel ruolo della sociopatica Moon-young e Oh Jung-se – un mostro di bravura – nel ruolo dell’autistico Sang-tae. È merito di quest’ultimo se ho iniziato a piangere dall’ottavo episodio fino alla fine, ma sfido a non commuoversi quando, per liberare il fratello e lasciare che si costruisca la sua felicità, gli dice: “Gang-tae appartiene a Gang-tae e Sang-tae appartiene a Sang-tae“.
Alla prossima metafora!
Laura

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