Nella neve aspettavo.
Che In-seon dicesse il resto.
No, che non lo dicesse.
Frasi che sono piccole scene. Scene che sono frammenti, bruschi e lenti allo stesso tempo, sfocati e vividi, persi nel buio e nella neve, ma illuminati da quella luce di taglio della memoria. Parole lasciate andare nel vento gelido, urlate nel silenzio e sussurrate a voce alta. Frammenti di parole che entrano all’improvviso nel cuore di chi legge, assorbiti dalle lacrime degli occhi, percepiti con i sensi nascosti, come evocati nei ricordi.
È così che si presenta l’ultima opera di Han Kang, “Non dico addio”, dove la parola in sé diventa cristallo raro e pietra dura, aleggia eterea e oltrepassa il cuore come una lama, arrivando dritto nella parte più inconscia del lettore e diventando portatrice di un messaggio universale, che sta tutto in quel concetto dell’addio. Quante volte diciamo addio silenziosamente e quasi inconsapevolmente, con quell’ultimo sguardo che accarezza e accompagna l’ombra delle persone care. Eppure, nessuno è cosciente di quell’addio, convinto che sia solo un passaggio momentaneo, qualcosa che è possibile superare nel tempo, fino a quando non arriva la consapevolezza della separazione.
Gyeong-ha è una scrittrice. Narra fatti ed eventi realmente accaduti, perché ha deciso di ricostruire sulla carta le tragedie e gli orrori della storia e di dare voce a tutte quelle persone rimaste nascoste nel dolore. Solo che quelle pagine intrise di grida e di sofferenza si sono trasformate per lei in una prigione, dando vita ad un incubo ricorrente, fatto da una foresta dove le anime degli uomini sono diventate tronchi neri di albero che brillano nella neve, che solo un isolamento estremo di un’afosa estate può cercare di respingere nell’oblio. Solo che quell’oblio è costituito da ricordi spezzati che affiorano nella mente e da addii mai pronunciati, lasciati cadere volontariamente nel vuoto.
(…) davanti ai miei occhi tornava a ripresentarsi quella scena: la neve che cadeva sulla pianura sconosciuta e il mare che spingeva tra gli alberi neri.
Arriva l’inverno, calano i primi freddi e sembrano placarsi anche gli incubi ricorrenti, fino a quando una voce lontana nella sua memoria la raggiunge al telefono per un’estrema necessità: è la voce di In-seon, amica e collega di un tempo, quando le sue foto e le sue riprese corredavano la narrazione di Gyeong-ha. In-seon ha lasciato Seoul e la sua vita da documentarista tanti anni prima, tornando nella terra natia di Jeju per prestare le cure all’anziana madre malata di Alzheimer e scegliendo una strana ordinarietà, fatta di ricordi da recuperare e di legna da intagliare. In-seon, che si è ferita gravemente la mano e si è mozzata le falangi, mentre intagliava legno, chiede a Gyeong-ha di andare subito nella sua casa di Jeju per occuparsi del suo pappagallino rimasto da solo, al freddo e senza cibo, ma anche l’unica creatura ancora in vita vicina a lei. E, così, con quella richiesta che cela in sé il tono di un addio, Gyeong-ha parte per una Jeju nascosta, quella invernale e gelida del monte Halla e dei villaggi bloccati dal vento e dalle tempeste di neve, quella Jeju ignota al turismo, dove Gyeong-ha amava rifugiarsi quando andava a trovare In-seon per sentire le antiche storie di sua madre, ma anche quella Jeju del sangue versato da migliaia di persone, sangue sparso eppure dimenticato e ignorato, come cancellato dai libri di storia.
Le avevo proposto di fare qualcosa insieme. Cosa ne pensava di piantare dei tronchi, dipingerli di nero e poi aspettare che nevicasse, riprendendo ogni fase dal principio alla fine?
Mentre Gyeong-ha cerca il pappagallino scomparso e lo seppellisce nella neve, nella vecchia casa in preda alle tempeste di neve, saltano la luce e l’elettricità, mentre le ombre della notte iniziano a confondersi con ricordi di una vita mai vissuta. Ed è così che, come un fantasma impalpabile, appare In-seon per parlare direttamente con Gyeong-ha e renderla partecipe di quell’addio mai comunicato ad altra voce, quello fra loro due, ma anche quello tra lei e sua madre e, infine, quello di tutti coloro che hanno perso la vita nella follia violenta del dopoguerra, rammentando quel progetto così simile all’incubo che affolla la mente di Gyeong-ha.
E le ombre che vedevo baluginare come pinne in un acquario scuro, quando pensavo e ripensavo al tuo sogno.
All’ombra di quei tronchi neri recisi, per cui In-seon si è ferita gravemente, le due amiche parlano di un passato mai vissuto, del passato della madre di In-seon, sfuggita da giovanissima alle rappresaglie dell’esercito coreano contro la popolazione inerme e testimone del massacro della sua famiglia, ma anche del passato del padre di In-seon, rimasto tremante per tutta la vita, sfregiato nell’animo dalle torture subite. I ricordi di In-seon sono i ricordi di tutto il popolo dei villaggi di montagna di Jeju, che, all’indomani della fine della guerra mondiale e mentre la penisola coreana veniva spartita in zone d’influenza, veniva immolato sull’altare di una finta stabilità.
I resti di una persona lungo il bordo della fossa avevano attirato la mia attenzione. (…) All’inizio del nuovo anno, decisi che avrei fatto di quella persona il soggetto del mio prossimo lavoro. Una persona di cui ignoravo non solo il nome, ma anche il sesso e l’età.
Si tratta del massacro di Jeju, avvenuto storicamente tra il 3 aprile 1948 e il maggio del 1949, nel quale perse la vita un numero imprecisato di civili, stimato tra i 14,000 e i 100,000, composto da una prima violenta insurrezione, suffragata dal partito comunista locale contro il governo nazionale in protesta alla convocazione di voto, e da una terribile repressione da parte dell’esercito, che si concretizzata soprattutto nei confronti di popolazione a caso, accusata di aver protetto e nascosto gli insurrezionisti.
C’è un filo sottile che lega Gyeong-ha, la narratrice, ma anche l’ascoltatrice, punto di riferimento per il lettore che apprende dai suoi occhi e dalle sue orecchie i fatti, con In-seon, la narratrice mediana, colei che rammenta i ricordi altrui e si fa portavoce delle anime inascoltate di chi ha sofferto e ha perduto familiari durante il massacro di Jeju, con, infine, la madre di In-seon, custode della memoria. Attraverso questo legame sottile e invisibile tra le tre donne e attraverso la loro forza cieca, ostinata e resiliente passa quell’addio non detto e rifiutato, quell’addio da devolvere alle persone care perse, ma che rimane fisso e immutato nei ricordi, perché solo con la memoria chi ci ha lasciato può rimanere sempre vivo.
È la memoria che restituisce la vita ed è anche la memoria che ridà la dignità agli esseri umani proprio nel momento in cui l’orrore sembra portare via ogni loro ultima traccia, come quei cadaveri spariti in una fossa comune e quei nomi cancellati e dimenticati dagli archivi. Ed è sempre la memoria che sa negare quell’addio rimasto sospeso nel tempo, perché nulla può morire, se la memoria ne conserva il ricordo per sempre, come la madre di In-seon ha sempre conservato tutti quei minuscoli ritagli di giornale, raccontandosi da sola una storia di salvezza e di futuro, o come In-seon stessa, la cui anima si distacca dal corpo per portare a termine la missione affidatale dai ricordi degli scomparsi, quella di perpetrare la loro memoria, o Gyeong-ha, che è, poi, l’autrice stessa, il cui compito non è più solo registrare i fatti, ma anche le emozioni, i dolori, le sofferenze e le speranze, racchiuse in quel rifiuto di lasciar andare i ricordi.
Ho inspirato e sfregato un secondo fiammifero sulla scatola. Non si è acceso. Ho provato con un altro, ma si è spezzato. Ho trovato il punto in cui si era rotto, l’ho stretto tra pollice e indice e ne ho strofinato di nuovo la capocchia sulla superficie ruvida. La fiamma si è levata. Come un cuore. Come un bocciolo che palpita. Come un battito d’ali dell’uccellino più piccolo al mondo.
Quel battito d’ali che è il fruscio stesso della speranza.
Laura
