“Sentivo il cuore che mi batteva. Sentivo il battito del cuore di ognuno. Sentivo il rumore umano che producevamo tutti, lì seduti, senza muoverci, nemmeno quando la stanza diventò tutta buia”.
(Raymond Carver, “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”)

Titolo originale: 劇場, Gekjiiou
Diretto da: Yukisada Isao
Scritto da: Horai Yuta
Cast: Kento Yamazaki, Matsuoka Mayu, Sato Kanichiro, Ito Sairi, Asaka Kodai, Iguchi Satoru
Genere: drama, romance, life, indie, theatrical
Corea del Sud – 2020 (film)
Ci sono immagini che si collegano ad esperienze passate e a memorie di letture, ci sono pellicole che sembrano riferirsi a libri con cui non hanno nulla a che fare, scrittura inconsapevole di romanzieri che li hanno ignorati, eppure in tutto e per tutto così rispondenti, quando si piegano al filtro della nostra percezione. Così è accaduto a me, durante la visione del film giapponese “Theatre: A Love Story“, con quella chiara e netta sensazione di guardare non tanto un’opera nuova, quanto qualcosa che avevo già avuto modo di leggere, in uno spazio misto tra prosa e poesia, senza alcuna vera identificazione, fino all’ultima scena, quando il buio scende sui protagonisti della storia e la scenografia di una Tokyo fredda e notturna sfuma per concretizzarsi con quella di un palco teatrale, dove i protagonisti stanno lì, muti e silenziosi al centro della scena, immersi solo nel rumore dei propri passi sul legno, mentre gli spettatori tentano di scrutarne i volti nel buio. Solo in quegli ultimi minuti in cui la finzione scenica di frantumava improvvisamente – e, con essa, anche la quarta parete teatrale – mi è tornato alla mente Carver, come se fosse l’autore anonimo e casuale di quell’opera appena vista, come se quei personaggi fossero usciti dalla sua penna, vivendo tra le sue pagine la sofferenza di cosa vuol dire amare e non amare, con tutta la loro solitudine silenziosa immersa nel rumore del mondo. Ed è per questo motivo che la recensione seguente è accompagnata e spezzata dalle parole di Carver, come se fosse narratore di questa storia non-scritta.
Con essa, un’unica grande domanda, destinata a rimanere senza una vera risposta, nascosta in frammenti di diversa grandezza tra le sue variazioni: di cosa parliamo realmente quando parliamo d’amore? E, quindi, che cos’è per davvero l’amore? Forse è uno spirito errante e mitico o è qualcosa di così drammaticamente reale e concreto, da non essere compreso nella sua limitatezza, cercandone una dimensione idealizzata e irrealistica in una continua aspirazione alle cose belle, che racchiude in un circolo di sofferenza?
Nagata (interpretato da Kento Yamazaki di “Alice in Borderland” e “Rikuoh“) e Saki (interpretata da Matsuoka Mayo di “Makanai” e “The Greatest Teacher“) vagano in un mondo dove la realtà dura di tutti i giorni si scontra con i loro sogni e le loro aspirazioni, alla ricerca della parola “amore”, innamorati del suo stesso concetto, senza capirne il motivo. Vagano e si incontrano, si innamorano e si scontrano, si fanno del male, si perdono, si cercano, si trovano e, poi, si fanno nuovamente del male, intrappolati da un concetto che hanno idealizzato, ma che non sono mai riusciti a comprendere.
In una calda giornata d’estate a Tokyo, la studentessa di recitazione Saki si vede seguita da un ragazzo mal vestito, con la barba sfatta di tre giorni e i capelli arruffati, capitato nel suo percorso come se ne fosse un guardiano. Questo ragazzo dice di chiamarsi Nagata, un aspirante sceneggiatore e regista teatrale, un talento naturale della scrittura, che, però, non sa come far fruttare il proprio carisma. Non si conoscono, ma i loro riflessi sulle finestre delle vetrine sembrano fondersi in un’unica ombra e, così, i due iniziano a conoscersi e a parlare di sé, perché, in fondo, sanno già che sono destinati ad innamorarsi.
“Avevano riso. Appoggiati l’uno all’altra, avevano riso fino alle lacrime, mentre tutto il resto – il freddo e dove lui era andato in quel freddo – restava di fuori, almeno per un po’”.
Saki ama la mente brillante di Nagata e la sua sensibilità artistica e culturale, il suo estro creativo fatto di genialità improvvisa e di lunga perdurante malinconia, il suo volto nostalgico e ombreggiato, che nasconde un temperamento ribelle e una profonda sofferenza. Nagata, d’altro canto, ama la vitalità di Saki e tutto il mondo racchiuso nel suo sorriso, la sua voglia di vivere, la sua positività solare, che non si abbatte nemmeno in mezzo alle tempeste e che si interseca con la sua umanità.
Ed è così che, dopo quel primo incontro estivo che li ha avvicinati, quando arriva l’autunno prendono la decisione di andare a vivere insieme, soli, ma uniti per affrontare la società circostante con tutte le sue amarezze. Vivere insieme non è semplice: Saki inizia immediatamente a lavorare per guadagnare soldi con cui pagare la casa, il cibo e le bollette e nel suo sorriso inizia ad incastrarsi la preoccupazione di sopravvivere nella vita di tutti i giorni; Nagata, invece, si dedica esclusivamente a sé stesso e a quelle sceneggiature, che tardano ad arrivare, consapevole delle difficoltà di Saki, ma autoesclusosi volontariamente da qualsiasi preoccupazione. Mentre Saki inizia a rinunciare al sogno di diventare attrice, chiusa in un routine fatta da un doppio lavoro e dalla fatica di lottare con ogni centesimo, Nagata trascorre le giornate ad odiare sé stesso e la sua mancata realizzazione, fatta di pièce teatrali che non prendono il volo e di sceneggiature che faticano ad essere scritte, di crisi d’ispirazione e menzogne, di invidia verso artisti apprezzati e di consapevolezza di essere privo di talento.
“Ho perso il controllo. Ho perso l’amor proprio. Ero una piena di amore proprio, io”.
Saki è convinta che Nagata sia sempre impegnato a scrivere sceneggiature, ma Nagata finge di tenersi occupato per non sentire le preoccupazioni materiali di Saki e non contribuire alla vita di tutti i giorni: si odia e, al tempo stesso, si assolve per questo, consapevole di essere nel torto e di continuare a fare del male alla sua compagna, ma deciso nel continuare le sue menzogne per non perderla.
Nagata si infastidisce per la presenza di Saki, per la sua continua gentilezza e la sua cura, che lo mettono con le spalle al muro, e per quell’eterno rumore che produce la sua presenza, che gli offusca le idee creative perché tenta di squarciare il suo alone di solitudine; al tempo stesso, sa di avere bisogno di Saki e di quella forza proveniente dal suo sorriso e dalla sua risata libera, una ricarica onnipresente di buonumore alla sua finta e caricata malinconia. Così, prende la decisione di trovare un piccolo lavoro, scrivendo recensioni, e di vivere da solo, ma di tornare sempre da lei ogni sera, mantenendo le distanze per preservare il suo isolamento creativo, ma cercando il suo sostegno per non perdere la sua energia, mostrando dolcezza solo quando finge di non essere sobrio, costruendo ogni giorno trincee, che, col tempo, si accumulano per diventare insormontabili.
Più Nagata traccia trincee, più mette distanza da Saki; più lui cela la purezza del suo primo innamoramento dietro recriminazioni e cupezza, più lei si allontana; più lui la cerca per assicurarsi la sua energia, più lei perde tutta la forza vitale che la caratterizzava fino a perdere anche sé stessa.
Perché Nagata e Saki erano destinati ad innamorarsi, ma a continuare ad amarsi e forse lo hanno sempre saputo da quel primo incontro in una città abbandonata dai suoi abitanti in ferie per approdare ad una rigida notte invernale in cui la loro separazione si concretizza nella promessa di un incontro d’addio, che, di fatto, non avverrà mai. L’amore sfuma nella sua mancanza. Nagata cerca Saki, che si è eclissata dalla sua vita, e, così, le dà una veste teatrale, l’unica che è riuscito finalmente a concretizzare: la loro mancata discussione prosegue in un teatro, su quello spazio aperto del palcoscenico, che per Nagata aveva rappresentato la vita vera. Incapace di ammettere i propri errori durante nella vita ordinaria di tutti i giorni, Nagata trasforma sé stesso e Saki nei protagonisti del suo dramma per continuare a vivere quell’amore mancato e terminarlo, chiedendo un perdono che non è mai riuscito a pronunciare.
“Mi sa che è ancora più triste vivere così, soli, ma insieme agli altri, invece che per conto proprio”.
“Theatre : A Love Story” non è un film di facile visione: al di là della lunghezza abbastanza impegnativa (quasi due ore e mezza), la pellicola indipendente è costruita per metà come un film d’essai francese degli anni ’70, realista e lirico, al tempo stesso, e per metà come un Dogma 95 scandinavo, con la vita di tutti i giorni come scusa per aprire il coperchio dei tormenti dell’animo. Dopo i primi attimi di luce e di giorno, il resto della storia è quasi totalmente ambientato di notte, con una graduale discesa nella notte più profonda e nel freddo più rigido, dove il buio corrisponde al senso di solitudine dei protagonisti, come un silenzio che inghiotte qualsiasi rumore e lo annulla. Al tempo stesso, un’altra quasi assenza della pellicola è quella della musica, con una colonna sonora rarefatta e minimalista, in molte scene mai presente per lasciare posto ai rumori della vita di ogni giorno, quelli provenienti dalla casa e dai suoi attrezzi, ma anche quelli della strada, talvolta così forti e assordanti da rischiare di coprire il suono dei pensieri e delle parole dei protagonisti. Inoltre, la tecnica narrativa è affidata ad una voce narrante imparziale, quella del protagonista Nagata che parla di sé in terza persona, narrando con lucidità tutti i suoi errori e le sue colpe.
Il film, che è diretto da Yukisada Isao, uno specialista di piccole storie drammatiche dai tempi di “Love Letter” (1995), è stato particolarmente elogiato dalla critica sia per le interpretazioni degli attori (in primis, Kento Yamazaki, che, all’epoca, passava da drama televisivi di genere romantico o slice-of-life a cinema più impegnato e che si è trasformato anche fisicamente per assumere l’aspetto trasandato ed emaciato del suo personaggio), sia soprattutto per il suo inaspettato finale meta-teatrale, dove realtà e finzione teatrale si confondono, senza dare più punti di riferimento nel racconto del protagonista e nel tempo, mostrando i personaggi giovani recitare sul palco, come in un dramma di Nagata, e, al tempo stesso, in una versione più adulta, seduti tra il pubblico degli spettatori, come a ri-guardare sé stessi e il loro perduto amore.
“E tutto questo, tutto questo amore di cui parliamo, diventerebbe solo un ricordo. Forse neanche quello”.
Laura
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