“I preti dissero che potevamo diventare poliziotti o criminali. Quando hai davanti una pistola carica, qual è la differenza?”
(dal film “The Departed – Il bene e il male”)

Titolo originale: 트리거, Teurigeo (conosciuto anche come “The Other Side of the Gun”)
Scritto e diretto da: Kwon Oh-seung
Cast: Kim Nam-gil, Kim Young-kwang, Park Hoon, Gil Hae-yeon, Kim Won-hae, Won Ji-hyun, Jang Dong-ju, Jo Han-chul
Genere: drama/ crime/ thriller
Corea del Sud, 2025 – kdrama 10 episodi
Esiste un termine nel dizionario inglese che, attualmente, assume tanti e complicati significati e definizioni, che variano dal campo tecnologico di base a quello medico, fino ad assumere aspetti di rilevanza psicologica. Il termine in questione è “trigger”, che, nato per definire semplicemente il grilletto di un’arma da sparo o qualsiasi altro mezzo che identifichi la levetta d’azione di tale arma, rappresenta, in modo generale, qualsiasi segnale di comando e/o di scatto di un meccanismo, materiale o meno, identificabile anche, in senso figurato, come uno stimolo qualsiasi – interno o anche esterno – capace di attivare una “leva” dell’organismo e/o della sua emotività, tale da far “scattare” una reazione conseguente e immediata, spesso intenso proprio dal punto di vista emotivo, perché fa capo ad un malessere psicologico accumulato e sedimentato nel tempo e spesso a condizioni traumatiche vissute nel passato dal soggetto, destinate ad esplodere e a deflagrare al verificarsi di uno stimolo che ne richiami la memoria.
Se ognuno può avere un ipotetico “trigger” diversificato, che può portare a far emergere le ansie e i traumi sepolti nel profondo dell’inconscio, esiste un “trigger” comune e condiviso, che, possibilmente diffuso tra diversi soggetti distanti, può far scattare una reazione simile, intensa e terribile nel suo parossismo di dolore?
Questa è la domanda di fondo a cui la serie tv coreana “Trigger” cerca di dare una risposta, creando una costruzione di fondo semi-ucronica, dove distopie letterarie e realtà attuale si intersecano sul piano psicologico, mettendo a confronto due grandissimi protagonisti, che sembrano quasi agli antipodi tra loro, ma la cui esistenza è frutto di un comune dolore, che ha preso vie separate di fronte a stimoli emotivi simili, eppure così distanti: entrambi di fronte ad una pistola carica come soluzione delle proprie sofferenze, ma ognuno calato in un contesto umano talmente diverso da diventare la vera variabile che ne condiziona le conseguenze.
Perché “la vera domanda non è come si spara, ma chi ha scelto di prendere la pistola“.
Lee Do (Kim Nam-gil di “The Fiery Priest” e “Song of the Bandits“) è un ex cecchino delle forze speciali dell’esercito. Dopo una serie di missioni pericolose su scenari di guerra e di terrorismo, che lo hanno visto costretto a premere più volte il grilletto nei confronti di persone ignote sulla base di una vaga presunzione di pericolosità, ha lasciato l’esercito per arruolarsi in polizia, seguendo le orme del suo vecchio mentore Jo Hyeon-sik (Kim Won-hae di “Youth of May“, “Strong Woman Do Bong-soon” e molti altri), l’unico che conosce la sua dolorosa infanzia e che lo ha salvato dal baratro del dolore.
Lee Do è un agente di polizia modello, responsabile, umano e compassionevole, che, però, evita di utilizzare armi, considerate da lui come il vero male della società, il mezzo in grado di corrompere l’umanità e di trascinarla verso azioni sconsiderate. Del resto, anche l’ordinamento sudcoreano sembra dargli ragione, prevedendo delle disposizioni molto restrittive per regolamentare l’utilizzo e la diffusione delle armi da fuoco.
Moon Baek (Kim Young-kwang di “Evilline” e “Hello Me“) è un uomo strano e, in apparenza esuberante, che nasconde un continuo dolore nel fisico e nell’anima. Nato senza un nome e senza genitori, abbandonato per strada e destinato al mercato nero degli organi, la sua esistenza è sempre stata segnata dall’oblio e dall’oscurità, fino a diventare un trafficante di armi con il fisico segnato da un cancro all’ultimo stadio. Ed è così che è riemerso, figlio dell’odio, in un mondo segnato da un male irreparabile, che, col tempo, si è visto deciso a far sprofondare nella stessa oscurità che gli umani hanno creato.
Per Moon Baek, gli esseri umani sono nati nel male e condannati al male, parte di un vortice di violenza che continuano a creare con le loro stesse mani, senza alcuna risoluzione. Nella sua condanna verso il mondo e la società che lo hanno distrutto, decide di provare cosa la natura corruttibile dell’animo umano può fare e di liberare chi ha sofferto dall’ingiustizia per creare un mondo più giusto, fatto di risposte automatiche e violente in grado di anestetizzare il dolore. Moon Baek, infatti, nel suo ragionamento contorto, si chiede cosa potrebbe accadere se tutti avessero un’arma per rispondere ai soprusi subiti e potessero premere, prima o poi, quel grilletto in grado di liberare il proprio animo dall’oppressione e dall’angoscia dei dolori e dei traumi accumulati.
Improvvisamente, però, un uomo entra in un goshiwon (gli stabili che affittano mini appartamenti a basso costo e senza caparra cauzionale) e apre il fuoco su persone ignote, colpevoli di avergli causato fastidio e oppressione in diversi momenti della sua vita. L’uomo si presenta come Yoo Jung-tae (Won Ji-hyun di “Mouse“), un ragazzo che da anni studiava senza successo per il concorso pubblico e che, abitando in quel goshiwon da tempo, aveva avuto poco prima una discussione con il vicino di casa. Yoo Jung-tae sembra inoffensivo in apparenza, eppure è stato capace di una violenza folle e sconsiderata, che non ha fatto distinzioni tra le vittime incontrate e crivellate di colpi, in un evidente perdita di lucidità e di stabilità emotiva e psicologica. Quello che la polizia non si spiega è come sia stato possibile per un comune cittadino venire in possesso facilmente di armi e munizioni, ma la spiegazione di Jung-tae sembra nebulosa: qualcuno gli ha inviato le armi gratuitamente, dopo avergli domandato se ne avesse bisogno.
Mentre la pista delle armi conduce Lee Do da uno scenario di strage ad un altro, con una moltiplicazione di casi di sparatorie, Lee Do e Moon Baek si incrociano inevitabilmente nei loro destini che varcano il confine tra il buio e la luce.
Ma qual è la differenza tra l’uomo che cerca di espiare il dolore del suo passato, rincorrendo le armi e l’uomo che cerca di diffondere il dolore provato, distribuendo armi?
Lee Do e Moon Baek sono entrambi prodotto della stessa società di dolore e di paura. Solo che, mentre il primo ha scelto l’umanità e la luce, il secondo non è riuscito ad uscire da quel baratro di violenza a cui continua ogni giorno a condannarsi, entrambi affetti da un’empatia orientata in modo diverso, introflessa quella di Lee Do, che comprende le sofferenze altrui e se ne fa carico attraverso il dono della compassione, che lo ha aiutato a superare i traumi passati, estroflessa quella di Moon Baek, che, nel comprendere la natura del dolore altrui, trasla su di esso anche la rabbia proveniente dal proprio dolore, dimostrando un trauma mai superato e travisando il concetto stesso di compassione. “Cum patire” non vuol dire dispiacersi per il dolore degli altri, ma entrare in stretta connessione emotiva, vivendo insieme lo stesso dolore per cercare di superarlo e trovando un comune sentire e una corrispondenza di emozioni. Lee Do isola gli aspetti positivi del dolore per “patirlo” nuovamente insieme a coloro che vede soffrire, entrando in relazione emotiva e psicologica con loro, senza lasciarli soli e senza farli sprofondare nel baratro dell’odio. Al contrario, Moon Baek cerca di travolgere gli altri con la sua onda di odio, non per liberare dal dolore, ma per portare gli altri a soffrire la sua stessa sofferenza, incastrandoli in una trappola psicologica, da cui non riesce a fuoriuscire.
Accanto alla storia principale, che sembra riecheggiare “Heat – La sfida” nello scontro titanico tra i due protagonisti, sussistono una serie di storie collaterali ad incastro, che forniscono la vera base su cui si muovono Lee Do e Moon Baek: storie piccole, fatte di dolore e di ingiustizia, ma anche di tanta umanità, interpretate in modo straordinario. Si va dalla storia della figlia del capitano Jo Hyeon-sik, vittima di truffa e spinta al suicidio, alla commovente vicenda di Oh Kyung-sook (Gil Hae-yeon di “Something in the Rain” e “One Spring Night“), una madre che chiede giustizia per il figlio, morto in un incidente di lavoro, dai due adolescenti vittime di bullismo che meditano di vendicarsi punendo i propri aguzzini (Park Yoon-ho e Son Bo-seung), all’infermiera che subisce soprusi al lavoro dalle colleghe (Kang Chae-young di “Jeongnyeon: The Star is Born“), fino ad addentrarsi anche nella storia di faide tra gruppi della criminalità organizzata (su cui spiccano le interpretazioni di Park Hoon, Ahn Se-ho e Park Kwang-jae).
“Trigger” scatena numerose disquisizioni su cos’è il male e come gestire le reazioni al dolore, ponendo lo spettatore di fronte ad un’annosa domanda sull’origine del bene e del male e sul perché la violenza sembra determinare il mondo, attraverso una critica sociale che va a toccare anche questioni metafisiche e morali. Per questo motivo, la serie, nonostante il ban ai minori di 18 anni (rating dovuto all’utilizzo delle armi) si è rivelata uno dei prodotti più interessanti del 2025, solo falsamente costruita come un webtoon thriller, ma, nella realtà, nata dalla creatività produttiva di Kwon Oh-seung, che aveva già creato il film thriller “Midnight” (2021), con un inedito Wi Ha-joon e Jin Ki-joo.
Avverto: non è un prodotto di semplice visione, considerato l’utilizzo di armi, la violenza, ma soprattutto le situazioni di sofferenza emotiva ritratte, che travolgono totalmente lo spettatore. Si rimane quasi trafitti dalle urla silenziose dei protagonisti, assordati dal rumore dei fischi successivi agli spari, intorpiditi dalla nebbia e dalla polvere delle esplosioni e svuotati dalle emozioni altrui. E si piange molto.
Laura
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