“Se diventare adulti significa fare a meno dei propri sogni, allora farò a meno di crescere”.

Titolo originale: 쌈, 마이웨이, Ssam, ma-i we-i
Regia: Lee Na-jeong
Sceneggiatura: Lim Sang-choon
Cast: Park Seo-joon, Kim Ji-won, Ahn Jae-hong, Song Ha-yoon, Kim Sung-oh, Jin Hee-kyung, Lee Elijah, Son Byong-ho, Kim Ye-ryeong, Jo Eun-yoo, Jeon Bae-soo, Kang Ki-doong, Pyo Ye-jin, Choi Woo-shik, Lee Jung-eun
Corea del Sud, 2017 – 16 episodi
Genere: drama, slice-of-life, comedy, sport
Avere trent’anni è un’età critica. La società crede che tu sia improvvisamente diventato adulto e inizia a chiederti il conto della vita: ciò che hai fatto, ciò che sei diventato, come appari, tutto viene messo sotto la lente d’ingrandimento e analizzato nel minimo dettaglio per essere valutato in modo spietato. Il giudizio di solito arriva in modo implacabile e quasi nessuno riesce e a salvarsi del tutto. Avere trent’anni per la società rappresenta il raggiungimento dell’età matura e, quindi, automaticamente essere diventati in pieno la persona che si voleva diventare, realizzati in tutti i campi, capaci di dimostrare di essere qualcuno.
Questo, perlomeno, è l’assunto che è sempre stato accettato per tutte le generazioni negli anni e il fatto che le cose siano cambiate radicalmente a partire dalla cosiddetta generazione dei “millennials” ancora destabilizza una prassi riconosciuta e cristallizzata. Perché i millennials sono stati i primi a non avere alcuna stabilità e alcuna certezza a trent’anni, spesso privi di un lavoro certo, non sempre indipendenti dal punto di visto finanziario e alla deriva nella sicurezza emotiva e relazionale. E la constatazione di essere giudicati dal resto della società perché si appare irrealizzati a trent’anni è ancora più amara per una generazione che si è dovuta adattare a vivere nella precarietà.
“Fight for My Way” è un drama che, per la prima volta, mette in luce i problemi lavorativi, sociali e sentimentali di una generazione costretta a crescere subito, eppure mai considerata del tutto cresciuta, e lo fa in modo chiaro e nitido, tracciando una storia che solo in apparenza ha le caratteristiche di una commedia, ma che sa intrecciare l’introspezione psicologica, il dramma sociale, il romanzo di formazione e lo slice-of-life. E parte dallo sport, visto come metafora della sfida per la realizzazione e della lotta continua per essere accettati nella società.
Questa commistione di genere nel ritrarre uno spaccato di vita ordinaria di una generazione è stata una vera formula vincente che, all’epoca della trasmissione del drama, ha procurato il favore del pubblico e della critica (basti pensare che tutti gli attori sono stati candidati per le loro interpretazioni al Baeksang Arts Awards e che il drama si è aggiudicato numerosi riconoscimenti, tra cui il Korea Producer Award come Best Drama, il Seoul International Drama Award, il KBS Drama Award, oltre ai numerosi premi vinti da entrambe le coppie nella categoria Best Couple). Il drama è ispirato al manhwa omonimo prodotto dallo Studio JEMI, scritto da Lim Sang-choon (anche alla sceneggiatura del drama) e illustrato da Jyuni e ChocoLatte.
Go Dong-man (Park Seo-joon di “Gyeongseong Creature 1 e 2” e “Dream“) è un ex atleta di taekwondo che a diciotto anni aveva davanti un futuro promettente nello sport, tanto da aver vinto una borsa di studio per una scuola esclusiva di Seoul, ma a trent’anni si ritrova allo sbando, segnato dall’ignominia di essersi venduto un incontro e cacciato per sempre dall’unica cosa che era in grado di fare. Costretto a mettere da parte i propri sogni e con una sorella malata da aiutare, abbandonato dall’ex fidanzato, che lo ha visto come un perdente e lo ha ripetutamente tradito, l’unico obiettivo della sua vita ormai è quello di guadagnare soldi da inviare alla propria famiglia, ma, non avendo alcun titolo di studio adeguato, si adatta a fare lavori a cui gli altri si rifiutano, come la disinfestazione dagli scarafaggi.
“Non è figo atteggiarsi da duro per non piangere, è figo piangere quando vuoi tu”.
La sua migliore amica Choi Ae-ra (Kim Ji-won di “My Liberation Notes” e “Queen of Tears“), con cui è cresciuto insieme e che lo ha sempre sostenuto, anche facendo un tifo forsennato all’epoca della sua gloria sportiva, ha studiato per diventare annunciatrice alla radio, ma non ha conoscenze, né appoggi e si è dovuta adattare ad impiegare la sua voce radiofonica agli annunci dei grandi magazzini, trattata spesso come la responsabile con cui i clienti se la prendono per le varie carenze del negozio. Un tempo combattiva, piena di sogni e di grinta, la sua vita è declinata sempre di più, rinchiusa in un’aspirazione diventata un sogno irrealizzabile, in un curriculum vitae destinato ad affossarsi e nell’incapacità di trovare una relazione stabile.
“Scommetto che le persone hanno davvero bisogno di fare ciò che amano”.
La loro amica d’infanzia Baek Sol-hee (Song Ha-yoon di “Marry My Husband“), al contrario, può dimostrare di essere stabile e sicura dal punto di vista affettivo. O, meglio, il mondo crede così, anche perché, mentre Ae-ra da piccola voleva conquistare tutto e Dong-man voleva diventare uno sportivo affermato, l’unica aspirazione di Sol-hee sembrava quella di trovare un marito e costruire una bella famiglia. Solo che a trent’anni si trova incastrata in una relazione decennale con Kim Joo-man (Ahn Jae-hong di “Chicken Nugget“) che sembra diventata una routine opprimente destinata ad evolversi in un vicolo cieco. Entrambi si sono trovati a lavorare per la medesima compagnia, ma, secondo una tacito accordo fra di loro, hanno deciso di non rivelare la loro relazione per non mettere in difficoltà le proprie posizioni lavorativa, soprattutto la carriera in ascesa di Joo-man. Col tempo, Joo-man ha assunto un ruolo importante in azienda, considerato oltretutto come un promettente partito da sposare, mentre Sol-hee si è trovata sempre collocata nella sua posizione di centralinista priva di opportunità di crescere e affossata nel ruolo della fidanzata segreta, quasi un’amante non riconosciuta. Anche la famiglia di Joo-man la valuta male, quasi come una fidanzata di transizione, convinta che non sia all’altezza delle aspirazioni e della posizione del figlio, senza notare la crisi reale che Joo-man vive su se stesso, incapace di reggere il passo con quello che il mondo gli chiede e di indossare ogni giorno la maschera della realizzazione.
“Devi essere la regina della tua stessa vita”.
I quattro amici, che da dieci anni vivono gli uni di fianco agli altri, separati solo da una scala che taglia in mezzo la strada, sono arrivati ad un punto di rottura, incapaci di distinguere il proprio sé da quello che la società ha loro imposto e da ciò che sono diventati, frustrati da una vita che sembra loro scorrere addosso senza lasciare alcun appiglio, eppure resisi anche conto di poter vedere l’ombra dei propri sogni e, quindi, di essere ancora in grado di prenderli, prima che svaniscano del tutto.
“Anche se ci svegliamo prima degli altri, anche se andiamo a dormire dopo degli altri, non abbiamo mai tempo. Lavoriamo più intensamente degli altri, ma i nostri curricula che non hanno incamerato alcuna esperienza mostrano davvero quello che siamo. Mi sento così arrabbiata, mi sento frustrata”.
Qui, però, inaspettatamente si inserisce la parabola sportiva. Dong-man aveva abbandonato per sempre lo sport, colpevole di aver commesso qualcosa a cui le contingenze lo avevo costretto e, quindi, ora condannato a scontare una vita al margine, senza possibilità di rientrarvi. Lo sport è di per sé una lotta per l’affermazione, una competizione continua più contro se stessi che contro gli altri, un’ansia costante di andare oltre i propri limiti e raggiungere un traguardo. Lo sport torna nella vita di Dong-man sotto le sembianze del suo ex allenatore di taekwondo, Hwang Jang-ho (Kim Sung-oh di “A Korean Odyssey“), che lo convince a tornare ad allenarsi e a declinare le sue abilità di lotta nelle arti marziali miste. Il cammino intrapreso non è facile, fatto di fatica, preoccupazioni e sofferenze, ma, se all’inizio Dong-man decide di optare per le arti marziali miste per un fattore economico, più passa il tempo e più comprende che la sua è una scalata per tentare di afferrare ancora i propri sogni, sfidare se stesso ad andare avanti e a lottare nella vita per conquistare il proprio angolo e urlare al mondo la propria presenza.
“Invece dei soldi, dovresti iniziare a pensare ai tuoi sogni e al tuo cuore. E dare la migliore opportunità alla tua vita”.
Quella voglia di rimettersi in gioco di Dong-man, quel “rifiuto” di crescere, letto come il rifiuto di adattarsi alle imposizioni del mondo, quel desiderio di essere se stesso, senza la necessità di dimostrare il proprio valore contagiano poco per volta anche i suoi amici: Ae-ra prende consapevolezza di sé e decide di tentare di mettere in luce le proprie abilità, al di là di un curriculum vitae scarso e piatto; Sol-hee comprende di non essere la fidanzata di qualcuno, ma di essere una persona straordinaria, senza la necessità di adattarsi ad un ruolo stereotipato; Joo-man capisce che il successo non è negazione di responsabilità e gratitudine e che è necessario preservare la propria autenticità senza essere ingoiati e annullati dal sistema.
E, poi, c’è Hwang Bok-hee (Jin Hui-gyeong di “I’ll go to you when the weather is fine” e “The Killer Shopping List“), presenza improvvisa e misteriosa, nuova padrona di casa degli appartamenti dove i quattro amici vivono e abitante dell’appartamento collocato all’ultimo piano con una terrazza da cui si domina la zona e che serve come angolo di quiete e di ristoro per i quattro trentenni. Bok-hee sembra comprendere le loro ragioni e le loro frustrazioni meglio di chiunque altro, con una consapevolezza materna che il mondo quasi le ha voluto negare, a causa di un passato doloroso, che l’ha collocata come una pariah della società.
Il fatto è che ci hanno insegnato che sogni e cuore prendono una strada diversa rispetto a carriera e soldi ed è così che ci troviamo bloccati in lavori che odiamo e prendiamo le relazioni come un obbligo temporaneo. Nessuno dà alla propria vita una chance e, in questa spirale, è automatico diventare delle persone svuotate all’interno, condannate come automi a condurre le proprie esistenza, senza alcuna ragione, e vittime dei giudizi di una società senza volto, pronta ad erigere ai più alti gradi, ma pronta anche ad annullare e a schiacciare le anime. Si diventa perdenti in un attimo agli occhi della società, ma in qualsiasi sconfitta ci sono i semi della vittoria. Non importa se il mondo faticherà sempre a riconoscerla o se i risultati in apparenza possono sembrare scarsi o addirittura nulli. La strada per la vittoria inizia quando ci si sveglia al mattino con la voglia di alzare la testa e guardare in faccia la società senza timore, con il desiderio di essere se stessi a prescindere senza essere costretti a dimostrare e a giustificare la propria presenza e con quella giusta dose di non-curanza nel percepire i giudizi altrui. Anche perché, in fondo, l’etichetta del “perdente” è solo qualcosa che gli altri affibbiano per non essere costretti a leggersela addosso, un’ignominia inconsistente che può diventare una gravosa macchia da scrollarsi, perché tende ad annullare le opportunità.
Per parafrasare una frase del film “Little Miss Sunshine“, nessuno è per davvero un perdente: i veri perdenti sono solo coloro che hanno così paura di vincere da non provarci affatto. Nello stesso modo, Dong-man, quasi sul finale del drama, afferma: “Se non possiamo vincere, proviamoci ugualmente. Vivere la nostra vita è già una vittoria. Che importa di quello che dicono gli altri?“.
Dedicato a tutti noi, che ci sentiamo sempre costantemente in difetto e perdenti, perché non sappiamo di aver già vinto in principio, vivendo la nostra vita.
Laura
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2 pensieri riguardo “Fight for My Way (ovvero dei perdenti chiamati a vincere)”