Ovvero: tutti i colori di un viaggio asiatico in un piatto e come far venire voglia allo spettatore di conoscere ancora più posti in Asia
Sin da quando ero piccola, la fine della scuola e l’inizio dell’estate coincidevano con una maggiore libertà di guardare programmi in TV, compresi quei programmi particolari e documentaristici, che, un tempo, andavano in onda quasi solo di notte e che tuttora trovano difficile collocazione nei palinsesti televisivi. Tra questi programmi, i miei preferiti erano quelli di viaggi, perché mi davano la possibilità di partire per mete sconosciute e inarrivabili, scoprire nuovi posti, venire in contatto con culture e popolazioni diverse e con tutte le particolarità di altre civiltà. Ed è così che ho scoperto da bambina la serie di programmi prodotti dalla RAI “Overland” e, poi, con i canali satellitari (e, successivamente, con il digitale) i programmi del National Geographic.
Ecco, forse in mezzo a questi programmi di viaggio, sono sempre stata così persa nei luoghi e nella cultura da dimenticare l’aspetto culinario, che, in realtà, occupa una parte considerevole della cultura di ogni popolo, probabilmente per il mio rifiuto di approcciarmi a programmi di ricetti di cucina o a gare tra chef. Solo da grande ne ho capito l’importanza e devo ammettere che in parte mi ha aiutato anche scoprire l’intrattenimento e i prodotti di spettacolo (serie e film) provenienti da altre parti del mondo – perché, alla fine, si sa, quando ci si approccia a tali prodotti, si inizia a voler conoscere di tutto, dal perché i ristoranti di sushi sono in un determinato modo al sapore differente del ramyeon in busta ultra piccante. Ebbene, mi è sembrato quasi provvidenziale quando ho scoperto che esiste una serie di documentari che faceva al caso mio. Si tratta di “Street Food”, format documentaristico statunitense creato da David Gelb e Brian McGinn che rispecchia tutte le curiosità su popolo, cultura e cibo in un contesto on the road.
La serie, per la verità, è composta da tre stagioni (finora), ognuna delle quali dedicata ad un continente o ad un paese diverso, ma la mia attenzione, come si può supporre, si è focalizzata sulla prima stagione, dedicata all’Asia.
Chi ha frequentato almeno una volta una fiera o un festival dell’Oriente – e, ancora di più, chi in Estremo Oriente c’è stato, almeno una volta nella vita – sa bene quale posto importante sia ricoperto dalla cucina, in generale, e dal cibo da strada, nel particolare.
Da secoli, baracchini e gazebi vari hanno nutrito con cibi nutrienti, economici e “veloci” intere generazioni di lavoratori, di manovali, di frequentatori dei mercati, di studenti e di turisti, senza fare distinzione tra giorno e notte. “Street Food Asia” è proprio un viaggio che porta a gustare tanti cibi diversi in differenti posti dell’Asia, senza dimenticare di incontrare le persone, conoscere i nomi, i volti e i discorsi di coloro che continuano a creare quel cibo ogni giorno, lavorando nella ristorazione da strada con dedizione, come per portare avanti una cultura di cui si sentono parte.
Il viaggio inizia a Bangkok, in Thailandia, dove Chawadee Nualkhair, giornalista americana di origini thai specializzata in cibo e lifestyle, scopre le origini dello street food della capitale thailandese nel crab meat omelette, una sorta di frittata di gamberi, nel curry thailandese, unico e differente da quello del resto dell’Asia, nei noodles tirati a mano con uova e barbecue e, infine, nel tom yum, una zuppa mista servita bollente, contenente peperoncino, lime, foglie di galangal e pesce, consumata in baracchini improvvisati e irregolari agli angoli della città, soprattutto di notte. Ed è così che conosce Jay Fai, che da un modesto ristorante temporaneo è arrivata nel 2018 a ricevere una stella Michelin, a Jek Pui, che ha imparato l’arte del curry in Cina e con la figlia ha aperto un’attività in espansione, fino a Kun Sumeth, che, col fratello, è diventato una vera e propria istituzione per i noodles fatti a mano.
Si viaggia, poi, ad Osaka, in Giappone dove si viene in contatto con alcuni piatti famosissimi della cucina giapponese, come il sashimi, i takoyaki e gli okonomiyaki, ma soprattutto si viene in contatto con i loro “artisti”, come è possibile definire questi cuochi e proprietari di ristoranti street food, che ogni giorno si reinventano e fanno della cucina uno spettacolo. Così, ad esempio, Toyo Izakaya, che ha aperto il suo baracchino ambulante all’età di 15 anni e affumica il tonno con la fiamma ossidrica in veri e propri show tali da far dubitare che sia umano per crederlo un personaggio da manga. Ma c’è anche Kit Taizo che possiede Umai-Ya, il secondo ristorante più antico di takoyaki in Giappone, dove ogni piatto è una vera e propria esperienza, e, infine, Yusuke Goshi, che ha ripreso l’antica ricetta dei nonni per okonomiyaki che contengono tempura, zenzero, cavalo e cipollotti.
La terza tappa è l’India, con i colori di Delhi e i sapori del potato chaat, un antichissimo aperitivo familiare, il nihari, uno stufato di carne e ossa, il seekh kebab, una variante particolare del più famoso kebab nata nel subcontinente indiano, e il chole bhature, un piatto molto popolare nel nord dell’India, condiviso sia dalla cultura indù che da quella musulmana. E conosciamo Dalchand Kashyap, Mohammed Rehan, Karimuddin Sahib e Dharmender Makkan. Ammetto di essere meno ferrata con la cucina (e la cultura) indiana, ma il percorso tracciata è stato molto interessante, anche perché è andato oltre le divisioni culturali e religiose esistenti tra la popolazione indiana, trovando radici comuni, al di là di qualsiasi conflitto.
La quarta tappa ha varcato la soglia di una città spesso ignota, che ho da sempre nella mia futura road map: Yogyakartha, in Indonesia. Forse non tutti sanno che Yogyakartha è uno degli ultimi sultanati rimasti e l’unico del Sud-Est asiatico, giurando fedeltà alla repubblica indonesiana nel XX secolo. Collocata nell’isola di Giava, di fatto Yogyakartha funziona come una città autonoma o, meglio, una regione speciale e il sultano svolge il ruolo di governatore della regione per conto della repubblica. I cibi visti sono stati davvero tanti, dal jajan pasar, un tipico snack dolce da mercato, al gudeg, un piatto di frutta tipica del luogo marinata nello zucchero di canna e nel latte di cocco, al mie lethek, variante locale dei noodles asiatici, ancora una volta marinati nel cocco. Qui, tra le molte persone incontrate, mi è rimasta impressa Jajan Pasar Mbah Satinem, che da una vita prepara jajan pasar, decorando cestini con i suoi colori e le sue bellezze (per intenderci, sembrava di vedere i macarons di Ladurée, ma in versione molto più economica).
Il programma si è, poi, spostato a Chiayi a Taiwan, per un cibo con cui, in effetti, ho più familiarità (scritto da una che, in un anno di continue trasferte di lavoro da una città all’altra, mangiava di sera in un ristorantino taiwanese). E, se la casseruola di teste di pesce e lo stufato che marina per tre giorni e tre notti sono senz’altro piuttosto impegnativi per qualsiasi stomaco mortale, il tacchino chiayi con riso è un piatto da non dimenticare, così come il budino di tofu. A Taiwan s’incontra Grace Chia Hui Lin, i cui nonni hanno aperto il ristorante Smart Fish ben 65 anni fa, terza generazione di ristoratori che sta lavorando per trasformare e modernizzare la sua cucina, Li-Hua Liu-Zhu, che vende tacchino con riso da 50 anni, e, infine, Eh Douhua, che è in affari e confeziona budino di tofu da 70 anni con alcuni ingredienti miracolosi, come le perle di tapioca e i fagioli di soia.
La tappa successiva, Seoul, in Corea del Sud, è senz’altro una delle più famose e ricercate da chi usufruisce di prodotti di spettacolo asiatici, per cui anche i piatti menzionati non sono una novità: kal-guksu, piatto di noodles con ingredienti della stagione, gejang, il famoso granchio marinato che si vede in tanti drama, bindae-tteok, pancake di fagioli di soia, e i baffle, dolci di panetteria derivanti dal connubio con i francesi. Qui, più che i nomi delle persone, fornirò di seguito quelli dei luoghi, magari per chi ha voglia di inserirli in un futuro viaggio in Corea: pare che il kal-guksu migliore sia cucinato davanti agli occhi degli avventori al Gwangjang market, grazie alla signora Cho Yoon-sun che usa anche abbondanti porzioni di kimchi; stesso luogo per prendere il granchio marinato da Jung Gun-sook, che segue la tradizione della nonna, che ha aperto la sua bancarella nel 1952 durante la Guerra di Corea, e per i pancake di Park Geum-soon, da oltre 40 anni nello stesso piazzamento del mercato; bisogna spostarsi nell’elegante e moderno quartiere di Dongdaemun, invece, per provare i baffle creati da Jo Jung-ja, che uniscono tradizione propria a innovazioni europee.
Altro luogo della mia futura road map è Ho Chi Minh City in Vietnam, dove ho scoperto che si può mangiare piatti abbondanti con davvero pochi soldi. Tralasciando le lumache, piatto che sembra essere una prelibatezza di tante parti del mondo, i piatti vietnamiti da provare sono molti e, col tempo, stanno diventando famosi anche in Italia. Così, ad esempio, il banh mi, la baguette vietnamita, il com tam, detto anche riso rotto, che sembra davvero composto da piccoli sformati di riso, e il pho, la famosa zuppa di noodles vietnamita. I mercati aprono presto, all’una del mattino, ed l’orario in cui Trouc inizia a preparare lumache per i lavoratori, mentre la famiglia di Huunh Quoc Dung serve a tutte le ore baguette e altri piatti di street food da 81 anni. Pare, però, che il pho più buono sia quello di Ahn Manh, i cui genitori si sono trasferiti dopo la guerra da Hanoi all’antica Saigon per aprire un ristorante che renda giustizia alle diverse versioni di pho.
Tappa successiva è la città-stato di Singapore, dove convivono diverse culture e diverse etnie e non è raro trovare tutta l’Asia in una sola strada. Uno dei piatti tipici è il putu piring, detto anche kue mangkuk, che ha la sua origine in Indonesia e che somiglierebbe agli inglesi e americani cupcake, se non fosse per le quantità industriali di cocco e di foglie di pandan impiegate: la vera artista di questo piatto è Aisha Hashim, che, con il duro lavoro di anni, è riuscita a mettere di lato i soldi per una scuola di alta pasticceria. La variante singaporiana dei noodles, i cosiddetti wonton noodles, ha, invece, origine dalla cucina cinese di Canton e il suo più grande artista pare essere Master Tang, che è giunto a Singapore da Hong Kong nel 1977 e che, di recente, è diventato uno dei ristoratori più instagrammabili per la bellezza dei suoi piatti. Poi, c’è il granchio in salsa piccante di Wayne e Paul Liew, che hanno ripreso e reinventato un piatto tipico malese, e il riso con pollo hainanese di Niven Leong, che si è ispirato alla cucina cinese di Hainan.
Ultima tappa la lontana Cebu nelle Filippine. Ed è qui che il viaggio si completa conoscendo Florencio Escabas, detto Entoy, che cucina piatti tipici con pesce fresco di ogni tipo, andando a comprarlo direttamente dai pescatori quando tornano a spiaggia con le barche. Il suo piatto più famoso è il nilarang bakasi, un connubio della dolcezza del latte di cocco, del piccante delle spezie e del sapore di mare. Per chi non mangia il pesce, c’è Leslie Enjambre, che ha imparato dalla nonna l’arte del maialino arrosto (denominato, in un neologismo un po’ ispanico, lechon), e Ian Secong, che spiega la bellezza della fonduta tuslob buwa (personalmente, solo per stomaci forti). Credo che i miei gusti mi porterebbero di più verso Rubilyn Diko Manayon che sforna in continuazione lumpia, in pratica una variante filippina degli involtini primavera cinesi.
Sebbene, oggi diverse norme abbiano ridotto e, talvolta, osteggiato il cibo da strada (soprattutto in Corea del Sud e in Thailandia), limitando gli spazi e sottoponendo a controlli igienici serrati, non si può negare che dalla cultura del cibo da strada si impara a vedere e a conoscere da vicino un popolo. Il documentarista, inoltre, si sofferma sulle storie umane che stanno dietro la creazione di ogni cibo con interviste che vi entreranno nel cuore (prima fra tutti, quella al giapponese Izakaya Toyo, non un semplice chef, ma un artista dello street food).
In generale, si gustano colori e sapori con gli occhi, si apprende la ricchezza della diversità col cervello e ci si commuove anche un po’, soprattutto tra Bangkok, Osaka e Yogyakartha.
Laura
