“Le persone credono di essere libere nel pensiero. Ma la verità è che siamo tutti controllati dal denaro. Se venissimo tagliati a metà, sarebbe possibile vedere che siamo infestati da un parassita affamato di denaro”.

Titolo originale: Jag-eun Assideul (작은 아씨들)
Regia: Kim Hee-won
Sceneggiatura: Jeong Seo-kyeong
Interpreti: Kim Go-eun, Nam Ji-hyun, Park Ji-hu, Wi Ha-joon, Kang Hoon, Kim Mi-sook, Um Ki-joon, Uhm Ji-won, Jeon Chae-eun, Lee Min-woo, Cho Ja-hyun
Genere: thriller/ mystery
“Natale senza regali, non è Natale“, disse Jo sdraiata sul tappeto di fronte al divano. Più o meno in questi termini, in un quadretto familiare ordinario, fatto di affetto, ma anche della vita normale di tutti i giorni e delle ristrettezze economiche, inizia il romanzo più famoso di Louisa May Alcott, “Piccole donne“, quella storia che tutti, ad un certo punto della nostra vita, abbiamo divorato e che, poi, spesso abbiamo continuato a leggere e rileggere, instancabili di apprendere i dettagli delle vite comuni, eppure straordinarie delle sorelle March, dotate di grande fantasia, di vivace intelletto e di tanti sogni, ma nate povere.
Non è Natale, ma un compleanno privo di regali quello che apre il quadro di questo del drama coreano “Little Women“, che, sulla base delle sorelle March, costruisce le sue piccole donne protagoniste nelle sorelle Oh In-joo (interpretata da Kim Go-eun di “Goblin” e “The King: Eternal Monarch“), Oh In-kyeong (Nam Ji-hyun di “Suspicious Partner“) e Oh In-hye (Park Ji-hu di “All of us are dead“), unite da un forte legame affettivo, ma costrette a lottare con la precarietà del denaro e l’umiliazione delle proprie situazioni lavorative e/o scolastiche, con i debiti lasciati dai genitori e con un mondo che le muove silenziosamente e senza scrupoli, considerandole delle pedine anonime di un gioco più grande e facendole inciampare in loro stesse per liberarsene con poche mosse.
Solo che, come le sorelle March, le piccole donne che rispondono al cognome di Oh sono animate di sogni unici, che custodiscono timidamente in un luogo protetto della propria anima, quell’anima che cerca una casa per ripararsi, per confortarsi e per essere accettati, dove tutti i problemi sembrano svanire.
In-joo, la sorella maggiore, ha sempre e solo desiderato diventare ricca, forse per compensare quella mancanza costante che ha caratterizzato la sua vita. Ed è per questo motivo che ha cercato invano di sposare un uomo ricco e che ha imparato a contare soldi. Conta i soldi da tutta la vita, i soldi richiesti dai creditori, quelli risparmiati per sé e per le sue sorelle, quelli che la madre di nascosto le porta via, quelli che i colleghi sperperano ai danni dell’azienda, quelli che fattura e che deve liquidare agli altri, quelli che non raggiungerà mai e quelli che anche un singolo fiore può nascondere come valore.
“Le persone muoiono quando sono povere”.
In-kyeong, la sorella mezzana, odia i soldi e la struttura stessa del capitalismo, ma sa che sono l’unico mezzo per arrivare ad afferrare quegli obiettivi sempre desiderati e mai raggiunti, che continuano a sfuggire dalle mani, anche se meritati. Vorrebbe studiare, lasciar spaziare la mente e la sua intelligenza, dimostrare al mondo che quel nome è collegato ad un cervello importante e che ha coraggio per misurarsi contro i potenti, ma soprattutto dimostrare che quel nome non è connesso ad un fallimento e che non può essere annegato nell’alcool della disperazione.
“Lavoro lentamente, ma alla fine arrivo sempre alla soluzione”.
In-hye, la sorella minore, sa che, in ogni caso, diventerà ricca perché ha un talento artistico che è in grado di annebbiare gli altri e poco importa se è disponibile a venderlo agli altri o se porge il suo sorriso e il suo conforto a persone che dovrebbe odiare, quando l’unica strada verso il successo è lastricato da sé. Non è la mancanza di denaro che teme, perché si è abituata ad essere povera e non ha paura di chiedere aiuto agli altri, ma quel troppo amore in famiglia che la soffoca, quegli sforzi delle sorelle maggiori, che si privano della bellezza per donarla a lei, che si sente poco degna di ricevere a loro scapito.
“I volti che ricorderò per tutta la vita. Sono tutti quei volti che voglio dipingere”.
La contabile, la giornalista, la pittrice. Tre sorelle dalla vita umile ed ordinaria, che rimangono incastrate in un labirinto, fatto di nomi, di denaro e di ricordi compressi. Un labirinto che è una trappola per topi (riprendendo il nome di un romanzo giallo di Agatha Christie), ma scenico e luminoso in ogni più piccolo dettaglio come una casa di bambole, che sa essere crudele, perché governato dall’esecranda fame dell’oro di virgiliana memoria, ma è anche profondamente umano, costruito dai meandri della psiche, dai suoi lati più luminosi e da quelli più oscuri rinchiusi nei recessi dell’inconscio.
“Il capitalismo è un gioco psicologico. C’è un’emozione che solo il benestante può percepire, mentre il povero non può”.
Al lavoro, In-joo conosce Jin Hwa-young (interpretata da Choo Ja-hyun), una collega più grande ed esperta, che sembra sempre scialba e poco appariscente e che passa le sue pause pranzo a curare la serra di orchidee del Wonryong Group, la multinazionale in cui entrambe le donne lavorano. Poco alla volta, In-joo si apre con Hwa-young, raccontando i suoi fallimenti e i suoi sogni, mentre Hwa-young si mostra diversamente fuori dal lavoro, elegante e alla moda, amante dei dettagli costosi e ricercati, frequente viaggiatrice verso Singapore e depositaria di segreti che In-joo può solo lontanamente intuire.
Fino a quando la morte improvvisa di Hwa-young, che viene trovata a casa impiccata nella sua cabina armadio, forse vittima di un suicidio, e la contestuale sparizione di 70 miliardi dalle casse del Wonryong Group, non mettono in discussione tutte le certezze di In-joo, che si rende conto di non aver mai conosciuto davvero bene l’amica e che un piccolo bocciolo blu di una rara orchidea può celare un pericolo molto più oscuro di quanto non si possa immaginare, inebriante e venefico al tempo stesso.
“Anche i fiori hanno le loro proprie personalità. Se mischi troppe tipologie insieme, inizieranno a darsi fastidio tra di loro, fino ad appassire”.
Mentre In-joo inizia a collaborare, sulla base di registri contabili lasciati dall’amica, con Choi Do-il (Wi Ha-joon di “Squid Game” e “Bad and Crazy“), un direttore finanziario del Wonryong Group, che medita di guadagnare a scapito della propria azienda, In-kyeong, appoggiandosi alla zia Oh Hye-seok (Kim Mi-sook di “The Whirlwind“) e al suo fidato ed eterno migliore amico Ha Jong-ho (Kang Hoon di “A Time Called You“), inizia ad indagare sul Wonryong Group e su Park Jae-sang (Um ki-joon di “The Penthouse“), uomo d’affari a capo del gruppo economico che ha iniziato ad intraprendere la scalata politica. Il sentiero delle sorelle Oh pare legato a doppio mandato con quello della famiglia che gestisce il Wonryong Group, nel momento in cui In-hye diventa la migliore amica di Park Hyo-rin, la figlia insicura e ansiosa di Park Jae-sang e di sua moglie, la colta direttrice di musei Won Sang-ah (Uhm Ji-won), che è innamorata del talento della più giovane delle sorelle Oh, ma è anche convinta di poter diventare confidente di In-joo, coinvolgendola nella propria famiglia.
“Little Women” è un thriller sontuoso, cupo e psicologico, talvolta anche sfiorando il gotico, che sa incastrare tante diverse trame e sottotrame (il giallo della sparizione dei soldi, il crime politico della società segreta, il dramma famigliare della povertà e del lutto, il noir della criminalità che circonda il gruppo Wonryong) con il filo conduttore della follia e della devianza psichica che caratterizza diversi personaggi, usando registri differenti, ma in perfetta armonia e piani narrativi spesso multilivello, che sono filtrati anche attraverso diversi punti di vista, come se lo spettatore seguisse la vicenda ogni volta dagli occhi di una o più sorelle per apprendere le informazioni poco per volta e ricostruire la soluzione solo alla fine.
Per ricostruire meglio la tensione e gettarla come un peso oscuro sull’animo dello spettatore, la sceneggiatura fa coincidere perfettamente fabula e intreccio, senza troppe digressioni temporali o flashback, lasciando che la discovery degli elementi avvenga lentamente, proprio come se fossero le prove presentate davanti al giudice e alla giuria durante un processo. Questa tecnica narrativa viene resa in modo incredibile anche grazie ad un contributo tecnico impressionante, dove scenografia, costumi e fotografia sembrano andare all’unisono per costruire un ambiente circostante che è, in tutto e per tutto, un quadro. La tecnica pittorica si ravvisa sulle pareti della casa di Park Jae-sang e Won Sang-ah, iniziando dalla tappezzeria che copre i muri degli intricati corridoi fino alle camere da letto, dove nessun colore acceso o cupo e nessun dettaglio sono lasciati al caso, ma sembrano usciti dal pennello di In-hye, per arrivare alla misera casa in povertà delle sorelle Oh, dove predomina un pantone di grigi e marroni spenti. Si tratta di un’estetica davvero rara e ricercatissima che ho ritrovato solo in un altro k-drama thriller di alto livello, “The Glory“. Come quest’ultimo, anche “Little Women” nasconde la chiave di una serie di allegorie, partendo dall’albero delle orchidee, costruito come se fosse l’albero del Bene e del Male, con una forte valenza simbolica racchiusa. Anche la scelta dell’orchidea blu come fiore simbolo non è lasciata al caso: già di per sé simbolo di rarità, di fragilità nella bellezza e di qualcosa di impossibile e disperato, le orchidee sono un fiore difficile da coltivare e spesso soggette ad una rapida morte se non sottoposte alle cure giuste, mentre le orchidee blu, nello specifico, sono viste come simbolo del desiderio, dell’aspettativa, anche di difficile realizzazione, ma che porta ad andare al di là dei confini (proprio come fanno le sorelle Oh e, soprattutto, In-joo in questo drama). Infine, il colore blu dei fiori è difficile da trovare in natura e, solitamente, è artefatto da coloranti che, iniettati direttamente alla base dello stelo floreale, alterano l’apparenza dei boccioli.
Il rimando letterario è palese già dal titolo: le sorelle Oh come le sorelle March protagoniste del romanzo “Piccole Donne“. E, quindi, In-joo come Meg, ossessionata dal denaro, passionale e convinta di sposare un uomo ricco, ma anche devota costantemente alla famiglia; In-kyeong come Jo, fiera, intelligente e a tratti scorbutica, coraggiosa nel buttarsi nella tempesta, eppure così timorosa ad aprire i propri sentimenti; In-hye come Amy, orgogliosa e consapevole di sé, a momenti fredda e calcolatrice, ma, alla fine, bisognosa delle sue sorelle. Ma anche: la zia Oh Hye-seok, ex infermiera durante la guerra in Vietnam, diventata improvvisamente ricca nel mondo immobiliare, come la zia March, secca e aspra col mondo circostante, seppur con una punta di umanità che la discosta dal personaggio del romanzo; Ha Jong-ho come Laurie, innamorato non corrisposto sin dall’infanzia, eppure resiliente e persistente nel suo amore, amico perenne e fiducioso.
Eppure il riferimento diretto al romanzo della Alcott non è l’unico antecedente d’ispirazione di questo drama, visto che è chiaro ed evidente il rimando hitchcockiano, a partire dal personaggio di Choi Do-il, modellato su uno dei protagonisti delle pellicole del maestro del brivido, forte e persistente come Sean Connery in “Marnie“, ironico e brillante come Cary Grant in “Caccia al ladro” (lo scambio di battute con In-joo – “Abbiamo la stessa etica”, “Che tipo di etica?”, “Nulla in questo mondo è più sacro dei soldi” – sembra essere uscita proprio dalla penna di Alfred Hitchcock). Ma Choi Do-il non è il solo elemento che può far classificare questo prodotto come un giallo hitchcockiano, visto che intere scene e l’estetica in generale sono ispirate proprio alle opere di Hitchcock: la sparizione dei soldi, il loro carico in uno zaino/borsa, con annesso giro per la città anche in auto, per essere nuovamente nascosti ricordano il momento in cui la protagonista di “Psycho” ruba il denaro; le scene ambientate nelle scale, che sembrano perdersi e aprirsi a nuovi corridoi, sono chiaramente una citazione di “Io ti salverò“, che, tra l’altro, è anche uno dei thriller più psicologici dell’intera produzione hitchcockiana, mentre il gioco di ombre che diventano più grandi e più ingombranti nella parete ricoperta da tappezzeria cita sia “Rebecca, la prima moglie” che “Il sospetto“; la corsa mozzafiato a Singapore sembra rimandarsi a “L’uomo che sapeva troppo” e in parte anche a “Intrigo internazionale“, soprattutto per lo scambio d’identità; i riferimenti teatrali e le ricostruzioni sceniche sono ispirate a “Paura in palcoscenico“, mentre la parte sulla società segreta e sul tentativo di sovvertimento dell’ordine si rifà a “Il club dei 39” (che, tra l’altro, è a sua volta basato sul romanzo “I trentanove scalini” di John Buchan); inoltre, il momento dell’accusa e del processo si rimanda, anche per come sono state girate molte scene, a “Delitto perfetto“, per non parlare di diverse costruzioni derivanti dai processi ritratti nei film di Otto Preminger.
Infine, come in ogni opera del maestro inglese, c’è la tematica sottesa inaspettatamente alla trama, che potrebbe essere la famiglia, la sorellanza, il monito di non rubare o, più semplicemente, è sintetizzabile in quella frase che In-joo si ripete costantemente, nonostante le avversità sembrano essere contro di lei e che forse dovremmo imparare a ripeterci tutti:
“Oh In-joo. La persona più importante su questa terra”.
Perché, poi, alla fine, la vera orchidea blu è nascosta in noi stessi, nella nostra importanza che va al di là di qualsiasi bravura e di qualsiasi capacità e che sta annidata nella fortezza personale che rende capaci di resistere alle intemperie, serrandosi come un bocciolo non ancora dischiuso per aprirsi successivamente. E, mentre In-joo, a differenza delle sorelle, nate entrambe con un dono particolare (la bravura nelle indagini giornalistiche di In-kyeong e l’arte pittorica di In-hye), sembra essere priva di talenti, è l’unica in grado di possedere quella rarità che la rende l’orchidea blu, capace di nascere da sola, come rampicante su un tronco, e di resistere nella sua speranza, nonostante le difficoltà della vita.
Laura
Come suona la recensione?
