Squid Game (ovvero sopravvivere a se stessi)

Il gioco del calamaro (오징어게임, Ojing-eo ge-im) è un gioco per bambini usato un tempo in Corea e consistente in una lotta tra attaccanti e difensori su un campo che riporta il disegno stilizzato di un calamaro (due cerchi piccoli, un quadrato enorme e un triangolo). Chi gioca in attacco deve riuscire ad invadere il campo, muovendosi con un apparente handicap (saltare su un piede), mentre chi è in difesa deve usare qualsiasi mezzo per spingere fuori dalla campo l’avversario. Anche la violenza.

Difficile parlare di quello che sembra essere l’evento del momento made in Korea e che sembra aver scardinato completamente la costruzione normale delle serie. Perché Squid Game è destinato a diventare davvero un prodotto epocale che ha avvicinato l’intrattenimento alla critica sociale, l’adrenalina ad un’analisi psicologica e sociologica profonda.

AVVERTENZA: contenuti molto violenti sia visivamente che psicologicamente, per cui non è adatto a tutti (soprattutto, nonostante la moda e la pubblicità possano far pensare ad altro, non è assolutamente adatto ai bambini).

ALTRA AVVERTENZA: se siete fan dei K-drama, vedetelo per dovizia di continuità; se non lo siete, guardatelo e vi chiederete per quale motivo non abbiate mai voluto vedere un K-drama prima d’ora (così, inizierete ad entrare nel vortice, fidatevi); se sapete che il vostro cuore e la vostra ansia possono reggere, guardatelo senza nemmeno sbattere le palpebre. In ogni caso, rinunciate sempre a giocare ad Un, Due, Tre… Stella e alle biglie (o forse no).

Di base, la trama può apparire semplice. Un misterioso reclutatore (Gong Yoo) va in giro come un agente di commercio a proporre a persone disperate, piene di debiti, al margine della società un gioco tradizionale: ogni manche dà diritto alla vittoria di 10.000 won o all’umiliazione di una sberla in pieno viso. Chi accetta di giocare viene invitato a partecipare a un grande evento di sei giorni, consistente in sei giochi della tradizione ludica d’infanzia e con un montepremi pari a quasi 46 miliardi di won (per la precisione, sono 45.600.000.000, quasi 33 milioni di euro).

La proposta viene accettata anche da Seong Gi-hun (Lee Jung-jae), padre divorziato che ha perso la custodia della figlia, ludopatico perennemente indebitato e dipendente dai risparmi derivanti dal lavoro al mercato dell’anziana madre diabetica, a cui l’assicurazione ha tagliato qualsiasi possibilità di cure mediche. Gi-hun entra nel grande evento di gioco con la casacca numero 456, di fatto l’ultima disponibile, e conosce una serie di personaggi, che, per diversi motivi, sono arrivati al limite estremo della propria esistenza: Cho Sang-woo (Park Hae-soo), suo vecchio amico di infanzia che è diventato un manager ricco e famoso, ma che si è macchiato di gravissimi reati finanziari; Kang Sae-byeok (Jung Ho-yeon), una giovane profuga nordcoreana diventata borseggiatrice che tenta di ricavare denaro per garantire un’esistenza libera in Corea del Sud alla famiglia; Oh Il-nam (Oh Yeong-su), un anziano malato di un tumore inoperabile che ha deciso di non morire in ospedale; Abdul Ali (Anupam Tripathi), un immigrato pakistano privo di lavoro che cerca un sostentamento per la sua famiglia; Jang Deok-su (Heo Sung-tae), un malavitoso con il vizio del gioco che è ricercato da tutta la criminalità coreana e filippina per una serie di sgarri; Han Mi-nyeo (Kim Joo-ryung), una tossica e truffatrice che adopera l’astuzia per rimediare protezione.

Quando il gioco inizia, però, si rivelerà essere completamente diverso dalle aspettative dei concorrenti, visto che una semplice e blanda sfida ad Un, Due, Tre… Stella diventa un campo di morte per centinaia di loro (letteralmente: ho avuto la pazienza di contare tutte le morti e a quel primo maledetto gioco perdono la vita ben 255 persone!).

“Negli investimenti si dice sempre: Mai puntare tutto su una carta sola”.

Non esiste, però, solo il gioco (o i giochi) dell’infanzia a cui i giocatori in tuta verde hanno accettato di partecipare, anche a costo di perdere la vita. Su un altro fronte, altrettanto pericoloso, l’agente di polizia Hwang Jun-ho (Wi Ha-joon) cerca di scoprire il mistero che ha ingoiato la vita e l’identità del fratello maggiore, sparito nel nulla, ma, di fatto, risultato uno dei condannati giocatori di un enigmatico gioco tenutosi anni fa su un’isola disabitata al largo della costa coreana. E, mentre Gi-hun e gli altri giocatori in verde cercano di sopravvivere ai giochi, ma anche alle ondate di odio fra i giocatori, che li mettono gli uni contro gli altri, Jun-ho si muove di nascosto tra le guardie vestite di rosa per capire dove possa essere finito il fratello, ma anche chi ha organizzato i giochi e, infine, chi si nasconde dietro la maschera di Front Man, la figura che sembra dirigere lo Squid Game.

Ecco, se si sopravvive al primo gioco e al primo episodio (in tutti i sensi, perché lo spettatore ha davvero l’impressione di correre con i protagonisti) e si ha la baldanza di continuare la visione, la serie riserverà un mix di toni e di registri differenti, passando con grandissima abilità di scrittura (e anche di interpretazione, ammettiamolo) da quello che poteva sembrare un action thriller ad alto tasso di adrenalina e di violenza ad un vero dramma psicologico alla “Parasite” che scava nel profondo e svuota lo spettatore, scandagliando l’interno dell’animo dei protagonisti. Perché la vera grande sfida che ognuno si trova davanti consiste nel confrontarsi con se stessi, con il proprio passato e con la voglia di rivalsa da esso, con il proprio appuntamento col destino e con la volontà di costruire un futuro, con la parte più emotiva e più altruista del proprio animo (che forse nessuno sa mai di possedere), ma anche con quella più oscura e bestiale, che farebbe di tutto per salvarsi, anche a scapito delle vite altrui.

Ogni personaggio era quasi al limite per rinunciare alla propria vita, eppure si aggrappa disperatamente alla propria esistenza contro qualsiasi previsione, persino a rischio di un profondo e irreversibile abbruttimento interiore. Sopravvivere diventa l’unico vero credo, il cemento delle giornate passate all’interno dello Squid Game, ma il problema è che, talvolta, non basta sopravvivere ai giochi, alle sfide che propone la vita, alla morte che circonda ogni giorno. Occorre anche sopravvivere a se stessi, venire a patti con tutti i lati della propria più intima personalità e accettarli senza farsi sopraffare da nessuno di essi, ma soprattutto ricordarsi fino alla fine della propria umanità. Nonostante la ferocia del gioco imponga l’emergere della belva annidata dentro ciascun animo umano, alla fine sono l’umanità, il rimanere se stessi e il non perdere la speranza nel prossimo che portano alla vittoria, anche contro qualsiasi previsione e scommessa.

Ma Squid Game è anche un complesso e strutturato gioco sociale: in una società che ha fatto soffrire ai personaggi esperienze di profonda diseguaglianza, la brutalità del gioco rende tutti eguali, senza alcuna differenza né discriminazione di base, se non quelle che si costruiscono nei nuovi legami e nelle nuove relazioni che si creano. Un’eguaglianza apparente che concede ai giocatori il privilegio di votare in democrazia, di formare alleanze, di amarsi e di odiarsi, ma che li rende, di fatto, solo dei piccoli esperimenti da laboratorio guardati dall’alto da una casta di ricchi e misteriosi scommettitori (i cosiddetti VIP), un’oscura società di privilegiati che gestisce la vita e la morte dei nostri e che introduce la tematica del divario sociale (causatosi in Corea del Sud al termine di una crisi economica profonda e complessa, ma valido, in realtà, in qualsiasi società) e delle diseguaglianze economiche.

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SPOILER: anzitutto, mai fidarsi di nulla e mai rimanere alle prime impressioni, perché talvolta i personaggi cambiano, mutano i propri caratteri, peggiorano e/o migliorano, come del resto qualsiasi essere umano posto in condizioni estreme di cattività e di sopravvivenza, ma talaltra si rivelano totalmente diversi da come si presentano, perché è proprio una caratteristica di qualsiasi gioco quella di ammettere la simulazione e l’astuzia e di obnubilare le menti degli avversari (per cui attenzione sempre al numero 001); inoltre, l’uomo con la maschera che comanda i giochi non solo non è un totale estraneo con potere di sorveglianza e dirigenza, ma qualcuno di molto più vicino di quanto si possa immaginare ad uno dei personaggi principali. Del resto, è interpretato da Lee Byung-hun, che, nella prima messa in onda della serie, era rimasto non accreditato, proprio per creare l’effetto sorpresa che i suoi cinque minuti senza maschera riescono a dare notevolmente.

“La pioggia benevola sa qual è il momento migliore per cadere”.

Laura

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