“Don’t forget 3 October 1911”.
Anche chi non è pratico di anime e manga e magari non ha mai letto/visto nemmeno un frame di “Full Metal Alchemist” (鋼の錬金術師, Hagane no renkinjutsushi, che, letteralmente, significa “L’alchimista d’acciaio”) ha sicuramente sentito questa frase, come un ricordo apodittico da non cancellare, una memoria da far rimanere intatta nella mente perché serve come spinta per andare avanti. E, in effetti, quel 3 ottobre rimane impresso nella mente di tutti i fan di questa serie, che, con piacere, aumentano ogni anno, perché è il giorno in cui tutto è scaturito ed è anche il giorno in cui un universo steampunk, sognante e magico al tempo stesso è stato creato, cristallizzato così, in un immaginario Stato di Amestris, retto da un regime militare autarchico e in perenne guerra con i Paesi confinanti, nei primi decenni del XIX secolo, in una terra non tanto dissimile dalla nostra, ma solo alternativa, dove gli sviluppi tecnologici della Seconda Rivoluzione Industriale si incontrano e si scontrano con una tradizione culturale millenaria che fa capo all’alchimia, ovvero all’abilità di trasmutare la materia, comprendendola, scomponendola e ricomponendola, senza variarne le sue proprietà o la sua massa.
In uno sperduto paesino di Amestris, vivono Edward e Alphonse Elric, due fratelli che studiano l’alchimia e coltivano il sogno di diventare alchimisti di Stato, una delle massime cariche istituzionali, ma anche scientifiche. Il padre se ne è andato quando erano piccoli, lasciandoli quasi privi dei ricordi della sua presenza, mentre la madre, Trisha, si è sempre fatta carico del loro sostentamento e della loro educazione come alchimisti. Sul finire dell’estate del 1911, Trisha Elric si ammala e inizia a peggiorare velocemente, lasciando orfani i figli quando le prime foglie autunnali si staccano dagli alberi e toccano il suolo. Edward e Alphonse, che non riescono ad accettare l’improvvisa scomparsa della loro amata madre, fanno il patto di utilizzare le loro nozioni alchemiche per riportarla in vita dalla morte: è il 3 ottobre 1911, quando nei locali bui di casa Elric viene compiuto un rituale alchemico misterioso e proibito, un tabù perché non si limita ad agire sulla materia, ma profana i concetti stessi di vita e di morte. Per questo motivo, i due ragazzi vengono puniti: durante l’esperimento, Edward perde la gamba sinistra, mentre Alphonse perde tutto il corpo. Nel tentativo di tenere legata l’anima di Alphonse al mondo terreno, Edward decide di rinunciare anche al braccio destro (per il principio dello scambio equivalente, per cui in alchimia ogni cosa richiede un “sacrificio”), incastrando l’anima del fratello in una vecchia armatura.
Passano anni e i due fratelli non hanno mai abbandonato il sapere alchemico, che, in qualche modo, ha loro cambiato la vita: Alphonse, che non ha mai perso il suo carattere pacato e calma, sempre pronto ad aiutare il prossimo, vive e interagisce con il mondo nella sua armatura gigante, come un enorme robot; Edward, invece, ha mantenuto intatto il suo orgoglio e il suo piglio accigliato con tutto e con tutti, diventando rinomato per la sua profonda conoscenza delle scienze alchemiche come “l’alchimista d’acciaio”, nomignolo che ha guadagnato anche grazie alle parti meccaniche che la sua amica d’infanzia Winry Rockbell, riparatrice di automail, gli ha costruito per sostituire gli arti persi durante il rituale.
Col tempo, il valore di Edward viene riconosciuto e gli viene tributato il titolo di “Alchimista di Stato”, ma il suo vero obiettivo, in realtà, non è diventare famoso e glorificato, ma trovare l’unico elemento in grado di gestire la trasmutazione e di far riacquistare a suo fratello Alphonse il corpo perduto: la pietra filosofale. Così, i due fratelli si mettono in viaggio per Amestris e per i territori confinanti, conoscono persone di ogni tipo, incontrano gente da aiutare e nemici che non si aspettavano, vengono a contatto con la fame, la povertà, la guerra, l’oppressione e cercano di superare gli ostacoli che si frappongono al loro viaggio, che è crescita e formazione, ma è anche una lenta comprensione del proprio sé, racchiuso in quei sensi di colpa che condizionano, a volte, l’esistenza.
“Credevo che la pioggia avrebbe lavato via tutta la mia tristezza, ma ogni goccia che cade sul mio viso è una lacrima nel mio cuore”.
Mentre spesso uno dei fili conduttori spesso preponderanti nel mondo anime, quello del viaggio in solitario perché in cerca di vendetta, i protagonisti di “Full Metal Alchemist” non nutrono risentimento e rabbia nei confronti di nessuno, se non nei confronti di se stessi, con quel peso dell’errore che diventa quasi peccato originario, quel metallo che si portano addosso sull’anima. Il loro viaggio alla ricerca di qualcosa che possa farli tornare come un tempo e, quindi, ristabilire l’equilibrio che hanno infranto, è anche un viaggio per cercare di perdonare se stessi e la propria colpa. Per questo motivo, non cercano una solitudine estrema, ma una solidarietà comune in cui confrontarsi con persone che possono chiedere loro aiuto per espiare, continuamente senza sosta, quanto avvenuto anni prima. In questo, l’animo dei due fratelli sintetizza il senso di colpa e la ricerca di espiazione dell’animo giapponese dopo la Seconda Guerra Mondiale, oppresso dal marchio delle cattive azioni e guidato dall’etica della sconfitta, l’unica in grado di fornire quel codice di condotta morale per lavare le proprie colpe con la consapevolezza di non farcela.
I due fratelli non sono gli unici a rappresentare una parte dei traumi storici giapponesi, perché ogni personaggio in sé è immerso nel mare del senso di colpa che nutre l’inconscio e nell’autopunizione di non sentirsi adeguati. Così, ad esempio, i militari Maes Hughes, Riza Hawkeve, Danny Brosh e Maria Ross, che adombrano l’ex regime autoritario e la classe militare giapponese prima della guerra, con la sua aspirazione a realizzare il bene, ma le sue pratiche opprimenti; così, anche gli altri alchimisti, tra cui la maestra Izumi, che rappresentano il sapere scientifico e tecnologico, ma anche la sete di conoscenza che ammetteva terribili esperimenti sugli umani; così, ancora, uno dei personaggi meglio costruiti della serie, il criminale ishvaliano, che rappresenta l’anima del popolo Ainu di Hokkaido (l’isola a Nord del Giappone da cui proviene l’autrice stessa del manga e di cui abbiamo parlato qui) e, quindi, la sua lotta per la sopravvivenza e il suo risentimento nei confronti dell’omologazione con la cultura giapponese; così, infine, il cattivo supremo (Padre nel manga, Dante nell’anime per blandire certi aspetti troppo altisonanti e quasi blasfemi) che, con i suoi homunculus, rappresenta l’ideologia che si sparge e manipola le mente e le azioni umane.
“Full Metal Alchemist” è nato quasi per caso dalla mente della disegnatrice e mangaka di Hokkaido Hiromu Arakawa, che aveva intenzione di scrivere una storia one-shot (unico volume) sulla questione dell’alchimia, con personaggi fantastici in cerca della pietra filosofale, e che aveva pescato i due nomi dei protagonisti tra le sue passioni più grandi: Alphonse prende in prestito il nome da Alphonse de Toulouse-Lautrec, padre del pittore Henri de Toulouse-Lautrec ed uno dei personaggi più in vista della Belle Epoque, mentre Edward è chiaramente un omaggio a Tim Burton e ad uno dei nomi più utilizzati dai suoi personaggi (si pensi ad Ed Wood o ad Edward Mani di Forbice). Più la storia prendeva il largo, più la trama si animava di personaggi originali e del cuore della coscienza collettiva giapponese, dove l’alchimia rimane solo il filtro per comprendere il mondo e le sue contraddizioni umane.
“Questo mondo scorre seguendo delle leggi che riusciamo a malapena ad immaginare. Comprendere quel flusso, scomporlo e poi di nuovo ricomporlo: questa è l’alchimia”.
Il manga è stato serializzato e pubblicato sulla rivista Monthly Shonen Gangan di Square Enix a partire dal 2001 (in Italia a partire dal 2006) fino al 2010 per un totale di 27 tankobon ed è stato trasformato nella serie televisiva anime omonima dallo Studio Bones tra il 2003 e il 2004 (in Italia sempre a partire dal 2006). Nel 2009, è arrivata una nuova serializzazione anime, dal titolo “Full Metal Alchemist: Brotherwood“, che, di fatto, rilegge la stessa storia della prima, ma in modo più fedele al manga e con qualche accorgimento narrativo in più: in questo secondo caso, ad esempio, la storia inizia dal mezzo delle avventure dei fratelli Enric, mentre il tragico incidente del 3 ottobre 1911 è narrato in flashback, facendo aumentare anche l’impatto emotivo stesso. Esistono anche due film legati alla serie (“Fullmetal Alchemist – The Movie: Il conquistatore di Shamballa“, concepito come finale della serie animata, e “Fullmetal Alchemist – La sacra stella di Milos“, non basato sulla storia del manga, ma relativo ad una storia originale), sei OAV (tre riassuntivi della prima serie e tre della seconda) e un film in live action diretto da Fumihiko Sori e interpretato da Ryosuke Yamada. Dato che l’autrice si è ispirata a diversi scenari toscani e dell’Italia centrale per ricostruire l’ambiente del fantomatico Stato di Amestris, il film live-action è stato quasi interamente girato a Volterra e nei suoi dintorni, dando un sapore medioevole alla storia.
“Full Metal Alchemist” è una fiaba umana, che fa riflettere sul tempo, sul calore della famiglia, anche non di sangue, sul legame tra fratelli/sorelle, sull’umanità e la sua meravigliosa imperfezione (“Il mondo è imperfetto. È per questo che è così bello“), sul futuro e sul credere in se stessi e negli altri (“Credere nei bambini e proteggerli. Questo è il compito degli adulti“), sul senso del sacrificio e sul dolore, che cambia se stessi e insegna l’empatia che, poi, diventa coraggio, pronto a sopportare e ad affrontare le avversità.
“Non si impara nulla da una lezione senza provare dolore, proprio come non puoi guadagnare senza sacrificare qualcosa in cambio. Ma, quando superi il dolore e impari la lezione, ottieni in cambio un cuore forte ed insostituibile… un cuore d’acciaio”.
Laura
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