“Chi è il mostro? Chi?”
Fili di erba verde smeraldo e verde bottiglia che si alternano dal basso verso l’alto sotto un cielo azzurro e inarrivabile. Terra scossa e sbattuta da un alito di vento, che mischia i colori sotto il sole e confonde l’occhio. Due voci infantili che corrono e si rincorrono nelle risate spensierate e nei ricordi fugaci di un’estate, che sembra essere eterna, come accade solo in quel frammento di età strana e non definibile, che segna la fine dell’infanzia e il passaggio ad un nuovo mondo, quello inarrivabile degli adulti, ma mantiene il mistero del suo segreto, quella luce che riesce a sopravvivere sempre dentro l’animo. Così si presenta, “L’innocenza“, noto internazionalmente come “Monster” (dall’originale “Kaibutsu“, 怪物), l’ennesimo capolavoro di Hirokazu Kore’eda (dopo numerosi successi, tra cui la pellicola “Broker – Le buone stelle” e il drama “Makanai“), con un’estetica che sembra uscita da un libro di poesie, a tratti pascoliana, sospesa in quell’eterna infanzia del ricordo, a tratti crepuscolare, nella sua ricerca di narrare una storia attraverso le piccole cose, quei dettagli banali e fugaci della vita ordinaria.
La narrativa della pellicola risulta costruita come un romanzo diviso in tre parti, ognuna colta da un’angolazione diversa, ovvero da un punto di osservazione e da una voce narrante differente, dove si ripete ogni volta la stessa storia con l’aggiunta di elementi nuovi e di un pezzo finale in più, come un puzzle composito di sentimenti ed emozioni umane, che costituiscono un prisma per decifrare un codice segreto, quello del mostro presente in ogni animo, che va a frantumare e a dissolvere l’innocenza.
Una leggenda metropolitana corre attraverso i banchi di scuola e narra che non tutti coloro che in apparenza si presentano umani lo sono veramente, visto che ad alcuni di loro è stato impiantato un cervello diverso, come quello di un maiale. Li definiscono “kaibutsu”, ovvero “mostri”, perché non sanno come chiamarli altrimenti, visto che nulla in loro sembra distinguerli dagli altri, eppure sono diversi e strani, non si conformano al resto della società e non cercano nemmeno quell’uniformità, non cercano le stesse cose degli altri e non pensano allo stesso futuro. Sono, quindi, dei mostri umani.
Una notte scoppia un incendio in un bar per adulti, che si trova vicino al palazzo dove vive Saori (interpretata da Sakura Ando, vista anche in “Godzilla Minus One” e in “Un affare di famiglia“, quest’ultimo sempre diretto da Kore’eda), con il figlio Minato (interpretato da Souya Kurokawa). Mentre osservano il fuoco e la tempestività dei soccorsi, lo sguardo di Minato vaga e la madre comprende che il ragazzo è turbato da qualcosa di cui non vuole parlare, rifugiandosi, piuttosto, nel dialogo muto con il padre morto durante la commemorazione per il suo compleanno. Col tempo, gli atteggiamenti di Minato iniziano a diventare sempre più inquieti: il ragazzo fugge di casa ad orari strani e torna pieno di lividi e di ematomi, come se fosse sempre coinvolto in liti, rompe gli oggetti intorno a sé, esplode in momenti di ira repressa o si chiude in un silenzio assordante. Con pazienza, Saori inizia ad indagare, chiedendo al figlio quale male affligge il suo cuore e scopre che il ragazzo è stato vittima di una serie di atti violenti e repressivi da parte del maestro di classe, il signor Hori (interpretato da Eita Nagayama, già protagonista dell’acclamato drama “Orange Days“), che lo ha ripetutamente picchiato e terrorizzato, accusandolo di essere un “mostro” da correggere. Saori si rivolge alla direttrice della scuola (interpretata da una bravissima e inquietante Yuko Tanaka, che sembra uscita da “Picnic ad Hanging Rock“) e al collegio dei docenti per aver ragione della vicenda, ma tutto ciò che ottiene sono delle scuse prive di senso e, quando la faccenda sembra aggravarsi anche per la testimonianza di un altro bambino, Youri (interpretato da Hinata Hiiragi), il licenziamento in tronco dell’insegnante accusato, senza alcuna presa di responsabilità da parte della scuola. Tuttavia, l’animo di Minato non torna alla serenità: durante il tifone la sua mente è altrove e, approfittando di una distrazione della madre, scappa di casa per perdersi nel vento.
Una notte scoppia un incendio in un bar per adulti lungo la strada che il signor Hori, neo-assunto presso la scuola elementare locale, e la sua fidanzata stanno percorrendo, mentre i suoi giovani studenti si rincorrono e riprendono tutto con il cellulare, compreso la presenza del maestro vicino al luogo dell’incidente. Ma Hori ha una vita regolare e semplice, scandita dalle piccole cose che gli riempiono le giornate, il suo lavoro a scuola, il tentativo di essere comprensivo con tutti gli studenti perché in un’età difficile, la cura per i suoi pesci, gli interminabili battibecchi con la fidanzata per le nozze e quell’hobby assurdo di segnalare gli errori sui libri agli editori. Nella sua gentilezza si avvicina anche a studenti che pensa possano avere delle sofferenze emotive, come Youri, deriso dai compagni di classe perché reputato “diverso” a causa del suo animo sensibile e delicato e di quella sua distanza dalla mascolinità tossica dei bulli della scuola, e Minato, chiuso in uno spazio solitario e muto, lontano dai suoi coetanei. Hori non riesce ancora a capire Minato, diviso a metà tra quel ruolo di autorevolezza e di comprensione nei confronti di un ragazzo difficile, che sembra turbato da qualcosa, forse vittima di bullismo o forse carnefice, insieme ai suoi compagni, di quegli atti di derisione contro il più debole Youri. Un giorno, inavvertitamente, per frenare uno scoppio di ira improvvisa di Minato contro la classe, Hori lo strattona, provocandogli una lieve ferita in fronte. Sembra che il malaugurato incidente capitato per caso sia stato dimenticato, quando la presidenza richiama Hori per aver molestato e picchiato un suo studente, che si rivela essere proprio Minato. Nonostante Hori sia certo della sua innocenza, la direttrice e i professori gli suggeriscono di prendersi tutte le colpe e di scusarsi come unico rimedio alla salvezza della scuola e del lavoro. Hori diventa, così, un “mostro” per l’opinione pubblica e, quando le accuse nei suoi confronti aumentano, viene licenziato di netto e messo alla gogna su tutti i giornali. Un giorno, mentre sistema tutte le carte portate via da scuola, trova un tema di Minato e capisce per quale motivo l’animo di quel ragazzo non è mai sereno, così esce durante il tifone, cercandolo mentre si è perduto nel vento.
Una notte scoppia un incendio in un bar per adulti vicino alla casa di Minato, ma lui sospetta su chi possa essere stato l’artefice. A scuola c’è un ragazzo strano, uno di quelli che gli altri chiamano “alieno”, “femminuccia” e “mostro”, perché sembra diverso dai suoi coetanei, parla con le bambine, saltella e canta da solo per strada, conosce i nomi di tutti i fiori e sembra incantato dalla natura che gli sorride intorno. Si chiama Youri e Minato non vorrebbe essere visto mentre parla con lui, anche se Youri lo viene a cercare e lo considera suo amico, perché sente nei suoi confronti una rispondenza che non ha con nessuno. Minato sa che questa corrispondenza è vera, visto che la avverte anche lui e visto che il suo animo è in pace solo quando si vedono e giocano insieme, in un mondo tutto loro, dove né adulti né bambini possono entrare, un mondo separato sia dalla città che dalla campagna, immerso nel verde di campi abbandonati al vento e nel grigio di binari morti e di vagoni inutilizzati, che per i due bambini diventano un veicolo di viaggio verso la fantasia. Youri sa di essere un “mostro”, perché suo padre glielo ha sempre confermato, picchiandolo in continuazione per correggerlo. Lo sa perché si sente diverso e capisce che non potrebbe mai uniformarsi agli altri e sa pure che Minato capisce il suo mostro, forse perché, senza saperlo, ne nasconde anche lui uno simile al suo, più ombroso nella sua negazione, ma così diverso dalla maschera che si è imposto nel mondo. Ma Minato continua a negare se stesso o, meglio, quando capisce che Youri è diventato importante nella sua vita, cerca di escluderlo in ogni modo, respingendolo, attaccandolo e facendo a botte con lui, ma anche costruendo, come in un gioco di specchi, un falso castello con un falso mostro, il signor Hori, che forse sarebbe stato l’unico in grado di ascoltare le sue confessioni. Fabbrica, così, una bugia dietro l’altra, creando una falsa verità dove può disperdersi, perché nessuno lo accusi per la sua diversità e perché tutti possano essere felici.
“Ho agito così, perché credevo di poter dare felicità alle persone intorno, ma, alla fine, quello infelice sono io”. “Se solo alcuni possono averla, non è felicità. Non ha senso, non credi? La felicità deve essere qualcosa che tutti possono avere”.
Ma esiste davvero un mostro? E dove si insidia? Si nasconde nell’animo umano o va in giro a testa alta sotto la luce di ogni giorno? Oppure è semplicemente una leggenda che ci si racconta quando l’età arriva ad un punto tale da dover salutare l’innocenza dell’infanzia e le paure e le brutture del mondo adulto diventano parte della vita di ogni giorno?
Youri viene accusato dal padre e dai compagni di essere un “mostro”, non solo perché diverso rispetto al canone comune, ma perché ognuno cerca di scaricare da sé quel mostro che sta appollaiato sulla spalla, pronto a nutrirsi della propria innocenza, gravando del carico un’altra persona. Minato accusa il maestro Hori di essere un “mostro” perché vuole allontanare da sé quel marchio che sa già la società gli potrà affibbiare (in questo senso, sembra molto il Torless dell’opera di Musil), sentendo il dovere di preservare, in tal modo, la propria innocenza, gravando della propria angoscia emotiva una persona distante e adulta. Eppure, ognuno nasconde un marchio personalissimo che scopre quando inizia l’adolescenza o nel corso della vita e che mal si adatta con la dicitura di “mostro”, nonostante qualsiasi giudizio possa essere affibbiato dalla comunità intorno. Il mostro arriva e si insidia solo quando, nel tentativo di negare se stessi e la propria personalità, si carica gli altri di una natura mostrifera senza alcun motivo. Youri e Minato non sono dei mostri per la loro diversità, ma lo diventano quando caricano della colpa di essere un mostro una persona innocente, perdendo, a loro volta, la loro innocenza, come, prima di loro, i compagni di classe e la società che li ha accusati di essere mostri, perché nega la complessità della natura umana ed etichetta le diversità come difformità. Il mostro, quindi, risiede nella menzogna e aleggia, portato in volo dalla parola, da quell’azione così umana e semplice che può essere la più distruttiva della vita altrui e reca in sé la morte dell’innocenza, di quel “fanciullino” libero e selvaggio, per usare i termini cari a Pascoli, le cui poesie mi vengono sempre in mente quando guardo le pellicole di Kore’eda, e che può essere salvato solo da una nuova vita, al di là della sofferenza e del dolore (come quelle domande di Minato sulla reincarnazione e la vita dopo la morte).
Con quel suo lirismo che proviene da un mondo visto dai bambini, Kore’eda parte ancora una volta dalla famiglia, dall’ambiente ordinario dei suoi giovani personaggi e, come cerchi concentrici sull’acqua, arriva a scandagliare il loro animo, che si adatta perfettamente a quel piccolo angolo di mondo da loro ritagliato, a metà tra la città e la campagna, tra il vecchio e il moderno, selvaggio e incolto, come i loro sentimenti che stanno sbocciando e la consapevolezza di sé, circondato da strutture morte e grigie, come quelle menzogne che servono loro per ripararsi non tanto dagli altri, quando dall’accettazione di se stessi. L’età e il momento più difficile della crescita, quello anche della scoperta della propria sessualità, sono affrontati con una delicatezza e una sensibilità unica che non trascendono mai, rimanendo fedele al suo stile narrativo fedele al “mono no aware“, a quella meravigliosa imperfezione della bellezza di ogni singolo ordinario giorno e delle diversità che in esso di colgono.
Un’ultima nota finale. Il film è dedicato al maestro Ryuichi Sakamoto, che doveva scrivere la colonna sonora per il film. La malattia e la morte hanno frenato Sakamoto dal completare la sua opera, lasciando, così, solo due tracce “Monster 1” e “Monster 2” (le altre presenti nella OST sono altre tracce scritte dallo stesso Sakamoto precedentemente), che il suo tocco delicato e intimista al pianoforte hanno trasformato nella descrizione senza parole dello stato d’animo dei due ragazzi, quei mostri additati da una convenzionalità che sembra non accettare la bellezza delle diversità.
Laura
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bellissima recensione, grazie
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Grazie a te per la lettura ^_^
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