Quando mi accinsi alla lettura di questo libro, non esisteva ancora la serie televisiva o, meglio, se ne parlava solo come di un progetto, un po’ nebuloso e confuso tra la realizzazione di un possibile drama e la produzione di un film. La copertina azzurra, con la figura di una donna in hanbok stilizzata che si stagliava da sola sullo sfondo, somigliava più ad uno di quei paraventi orientali degli antichi palazzi e il suo vestito si perdeva in orlo che via via diventava un paesaggio e un racconto. Sotto il doppio titolo, campeggiava solo una frase di Barack Obama, come un consiglio di lettura, e un’etichetta “National Book Award Finalist”, ovvero finalista al National Book Award come miglior fiction storica, premio americano a cui fu candidato nel 2017, l’anno della sua pubblicazione. Erano gli anni in cui gli Stati Uniti iniziavano ad interessarsi alle diverse componenti della propria società multietnica, anche quelle minoritarie, la cui immigrazione era stata di data più recente, tra cui, in particolare, quelle asiatiche, sottoposte a continue ondate di razzismo. Nel 2020, mentre la pellicola sudcoreana “Parasite” vinceva l’Oscar, il film “Minari” portò al centro l’attenzione sulla seconda e terza generazione di immigrati coreani negli States, conquistando il Sundance Film Festival (e regalando l’anno dopo l’Oscar all’attrice non protagonista, Youn Yuh-jung, che, caso vuole, qualche anno dopo, interpretò proprio la serie televisiva “Pachinko“).
Nel 2021, arrivò nelle librerie italiane, pubblicato da Pickwick di Edizioni Piemme, e lì lo trovai io, che, in quegli anni, avevo iniziato ad interessarmi di cultura e storia coreane.
Si annunciava come un libro evento che si proponeva di narrare la saga di una famiglia attraverso gli occhi della matriarca e la voce di un’autrice americana di origini coreane, Min Jin Lee, figlia di quella diaspora che per decenni ha portato il popolo coreano ad emigrare dalla patria all’estero e che realizza le proporzioni della sofferenza subita nei secoli da questo popolo e dal suo territorio, al centro di contese e dissidi tra gli Stati confinanti, oggetto di conquista e di depredazione, ma sempre coeso nel mantenere le proprie tradizioni. Concepito inizialmente come un approfondimento collaterale alla ricerca che l’autrice aveva condotto per studio sulle comfort women, il romanzo ha assunto un’anima sua che si è evoluta durante il processo di narrazione e di ricostruzione, come confessato dall’autrice nei ringraziamenti. Già dalle prime pagine emerge fortemente questa caratteristica, suddivisa in epoche e in capitoli, che vanno a percorrere tutto il secolo ‘900, spaziando dalla Corea al Giappone fino agli Stati Uniti.
La storia inizia con un uomo e una donna con una locanda per i pescatori sulla spiaggia di Busan, a cui viene detto che sarebbe stato impossibile avere figli, ma che, col tempo, diventano genitori di un bambino sensibile e riflessivo, che sembra più maturo rispetto ai suoi coetanei, sempre gentile e disponibile con gli anziani, ma che viene definito “mostro” perché nato zoppo, col labbro leporino, che gli provoca difficoltà a nutrirsi, e di salute cagionevole. Quando cresce e si sposa, la moglie si sottopone ad un rito sciamanico per liberare la famiglia dalla macchia della maledizione che il marito porta sul volto e avere un figlio sano e forte, dopo una serie di aborti e di morti premature. Nasce una bambina, Sunja, che ha la bellezza d’animo e la sensibilità interiore del padre, ma la forza e la resistenza fisiche della madre.
Sunja cresce e diventa una grande lavoratrice nella locanda gestita dai genitori, prima, e dalla sola madre, dopo la scomparsa del padre, abile in tutti i lavori e negli affari, tanto da essere una presenza fissa al mercato, dove contratta per i viveri da portare alla locanda. Ed è lì che incontra Hansu per la prima volta, un uomo alto e ben vestito, coreano, ma parlante giapponese alla perfezione, che sa contrattare alla pari sia con i suoi conterranei che con i conquistatori giapponesi che comandano la Corea. E, soprattutto, Hansu non ha paura di niente e di nessuno, come quando la difende dai alcuni giovani studenti giapponesi che volevano approfittarsi di lei.
Sunja e Hansu iniziano ad incontrarsi a ripetizione e, col tempo, a frequentarsi, sia durante le visite di Sunja al mercato, sia durante quelle di Hansu nei pressi della locanda, e, frequentandosi, si aprono l’una con l’altro e si innamorano. Quando Sunja annuncia ad Hansu l’improvvisa gravidanza, però, l’uomo, per quanto dimostri contentezza per la nascita di un figlio (che spera essere il suo erede maschio), le confessa di non poterla sposare perché già coniugato infelicemente con una donna giapponese, che gli ha dato tre figlie e da cui vive separato senza poter divorziare. Sunja sarebbe per lui la cosiddetta “moglie coreana”, un’amante ufficiale che non potrebbe mai soppiantare la moglie vera, quella che vanta la nazionalità dell’impero giapponese, e, come tale, si dichiara disponibile a trovarle un alloggio in Giappone e a prendersi cura di lei e del figlio. Ma l’orgoglio di Sunja non le permette di accettare le briciole e, anche se sa a quali difficoltà una donna da sola con un figlio fuori dal matrimonio va incontro, rifiuta l’offerta e si separa da Hansu.
Qualche tempo dopo arriva dal nord Isak, un giovane alto e magro, di salute cagionevole, ma di fermi ideali, che predica il perdono cristiano e l’impegno per un mondo migliore e parla a Sunja della sua religione e della luce della fede. Sunja gli salva la vita, assistendolo dalla tisi, nonostante il suo stato di gravidanza, e Isak le salva la reputazione, decidendo di sposarla e di portarla con sé in Giappone, dove ad Osaka lo attendono il fratello e la cognata, oltre ad una parrocchia di cui prendersi cura come pastore. E’ il 1931, Sunja si imbarca su un battello e dice addio alle coste coreane che non rivedrà mai più per una terra dove gli immigrati coreani sono trattati come il gioco d’azzardo del pachinko, una variabile da tollerare momentaneamente nella società, ma, col tempo, da correggere ed estirpare, prodotto di un bassofondo di povertà che risulta disfunzionale alla perfezione della macchina imperiale giapponese. Ma Sunja, in particolare, si sente una giocatrice d’azzardo della vita, perché sa di un appartenere a nulla e a nessuno, né alla terra coreana che ha abbandonato, né alla nuova terra giapponese, né, infine, a quella piccola comunità coreana trapiantata, a cui si è imposta con la sua presenza ingombrante di una gravidanza altrui. Conscia che la famiglia del marito ha contratto un enorme debito per pagare le spese di viaggio e la sua sistemazione in Giappone, Sunja inizia a procurarsi soldi come può, cucinando e vendendo il kimchi per strada ai lavoratori coreani che andavano verso la stazione e vendendo quelle poche ricchezze che possiede, compreso l’orologio d’oro che Hansu le aveva donato.
Nel sobborgo coreano, che odora costantemente di cavolo fermentato e risuona delle voci dei bambini che giocano per strada, Sunja partorisce due figli (Noa, il figlio di Hansu, e Mosazu, il figlio del marito), lavora disperatamente cucinando e vendendo cibo per strada e, poi, cucinando presso un ristorante e resiste inarrestabile alle intemperie della vita e della politica, che rischiano di spazzarle via tutta la famiglia, trasformandosi e diventando quella colonna silenziosa e forte di cui tutti col tempo sentono di aver bisogno. Arriva la guerra, con i suoi orrori e i bombardamenti a tappeto, le persone intorno iniziano a morire, Hansu, che si rivela essere uno zainichi (immigrati coreani in Giappone oramai divenuti cittadini giapponesi), ma anche un affiliato della yakuza, la rintraccia e cerca di essere presente nella sua vita almeno con un supporto economico, ma Sunja continua inarrestabile a lavorare e, da sola, dopo la morte del marito, a crescere i suoi figli e a provvedere alla sua famiglia, cercando di integrarla nel tessuto della società giapponese, pur senza mai perdere le proprie tradizioni coreane.
La storia copre un arco narrativo che parte agli inizi del ‘900, con la nascita del padre di Sunja e, successivamente della stessa Sunja, si sofferma con un’attenzione particolare agli anni che vanno dal 1930 al 1950, incentrati sulle vicende di Sunja, Hansu, Isak e della sua famiglia e agli anni che vanno dal 1960 al 1970, seguendo le storie dei figli di Sunja, il sensibile e fragile Noa, che cerca l’interezza in una rassomiglianza impossibile con il padre putativo Isak e che sente di dover espiare colpe non sue, e il pragmatico e moderato Mosazu, che prende in mano la parabola di identificazione del popolo coreano con il gioco d’azzardo del pachinko, diventandone imprenditore e forgiando la fortuna economica della sua famiglia, fino ad arrivare al 1989, l’anno in cui il figlio di Mosazu, Solomon, torna in Giappone dagli Stati Uniti, dove si è laureato, pronto a ricoprire un posto di lavoro, che si rivelerà amaro, bloccato in quel limbo apolide di essere residente in Giappone, ma privo di una qualche cittadinanza, condannato a portare avanti le sorti della famiglia per farle uscire dal buio dell’immigrazione, così come, decenni prima, la nonna Sunja.
Gli occhi di Sunja e la sua forza silenziosa sono la vera chiave di lettura del libro e della sua progressione narrativa, che, al contrario della serie TV, vede una coincidenza perfetta tra fabula e intreccio, senza inserire mai né flashback né flashforward, ma seguendo una voce narrante terza, non onnisciente e partecipe del dolore e della sofferenza dei personaggi.
In tutto ciò, leggendo le 600 pagine che compongono l’opera, si ha quasi l’impressione di sentire quell’eco delle saghe familiari, dove la Storia entra attraverso gli sguardi e le voci dei protagonisti, si percepisce dai loro comportamenti e da quei piccoli e banali avvenimenti di ogni giorno, e risuona come la risacca del mare registrata in un vecchio disco. Penso che non esista un’opera migliore di questo inaspettato romanzo di Min Jin Lee per descrivere il “secolo breve” (espressione con cui Hobsbawm definì il ‘900), attraverso le generazioni di coreani immigrati e apolidi, lavoratori rinnegati, ma anche imprenditori degli ultimi anni, tradizionalisti classici e innovatori, resistenti, ma flessibili come il giunco che non si fa trasportare via dalle onde delle acque.
Laura
