“Lei è un brav’uomo o un uomo cattivo?”. “Sono solo un uomo determinato a sopravvivere”.
1945. Gyeongseong è l’eponimo di una capitale anonima, che ha perso il suo nome originario e non ricorda nemmeno più di essere Seoul, svuotata della sua stessa vita e privata della libertà durante il dominio giapponese. Rimane solo la sua funzione di città capitale di una colonia straniera: Gyeong 경, che significa “capitale”, e seong 성, che indica la “città murata”, due parole che in hanja (o kanji) sono translitterate come 京城 e che, mentre la lingua nativa di Choson continua a leggere Gyeongseong, la lingua giapponese dei dominatori ha cambiato in Keijō. E’ una città che ha ormai cancellato la sua precedente grandezza e che vive nei ruderi e nella commiserazione dell’antica gloria e negli espedienti di un’esistenza che fatica ad andare avanti.
In mezzo al lusso sfrenato della miseria umana e ai patti di quieto vivere e di (s-)leale collaborazione con il regime giapponese, prospera Jang Tae-sang (il sempre glorioso Park Seo-joon di What’s Wrong With Secretary Kim, Itaewon Class, Kill Me Heal Me e tanti altri), un uomo che ha fatto dell’avidità un’eleganza e che, come Rhett Butler in Via col vento, tiene a freno qualsiasi spirito nazionalista e patriottico per vivere bene, intrattenendo rapporti con i giapponesi nella sua Casa del Tesoro d’Oro (di fatto, il banco dei pegni più grande della città) ed elargendo la sua protezione in un sottobosco cittadino più o meno complesso (che comprende le gisaeng, prostitute d’alto bordo, di un locale dove si rifugiano sia i militari giapponesi in rottura con i propri ordini, che l’intellighenzia patriottica e indipendentista, in un reciproco ignorarsi). Jang Tae-sang, però, è anche noto per essere “l’uomo più informato della città”, per cui, se si vuole sapere qualcosa e/o si vuole trovare qualcuno, bisogna necessariamente rivolgersi a Jang del Tesoro d’Oro e acconsentire ai suoi mezzi più o meno leciti. Nozione che conosce bene il suo vecchio ex migliore amico (o, forse, tuttora migliore amico), Kwon Jun-taek (Wi Ha-joon di Squid Game e Bad and Crazy), figlio di ricca famiglia collaborazionista, ma aspirante alla libertà e all’indipendenza coreana, ma anche la terribile Lady Maeda (Claudia Kim, che, per intenderci era Nagiri nella nuova saga potteriana di Animali fantastici), spietata e compassata nobildonna giapponese che controlla tutta la capitale.
Quando Yoon Chae-ok (Han So-hee di My Name e Soundtrack #1) arriva in città clandestinamente dalla base dei socialisti indipendentisti in Manciuria, accompagnata da suo padre Yoon Jung-won (Jo Han-chul di The Law Cafè, Hometown Cha-cha-cha e Healer), con lo scopo di trovare una persona specifica, le viene detto che qualsiasi missione comprenda la ricerca di informazioni, di dettagli o di persone in mano ai giapponesi deve necessariamente passare da Jang del Tesoro d’Oro. Costretta, in modo riluttante, ad un’alleanza che vede quasi come un tradimento dei propri principi e dei propri valori, Chae-ok si lascia avvicinare lentamente da Jang e lo “contagia” con la sua umanità e i suoi ideali, smussando la pietra che lo circondava e facendo emergere in lui la speranza di un mondo migliore.
Fino a qui sembrerebbe un period drama sulla storia dell’indipendenza coreana, magari macchiata qua e là da venature crime e spy story che tanto convincono nei pieni anni ’40 del XX secolo, con un’impostazione scenografica e fotografica imponente e incredibile, degna da concorrere con Hollywood. Però, Gyeongseong nasconde nel sottosuolo un segreto di cui hanno conoscenza solo poche persone oltre all’onnipresente Lady Maeda, ovvero il tenente colonnello Kato (Choi Young-joon di Vincenzo e Flower of Evil) e il dottor Ichiro (Hyun Bong-sik di Strangers From Hell e Destined with You), e a cui viene introdotto il pittore giapponese Ryu Sachimoto (Woo Ji-hyun di A Piece of Your Mind e All of us are dead) con il compito di ritrarre i mostruosi esperimenti sugli esseri umani condotti presso l’ospedale Onseong, esperimenti che hanno dato vita ad una potentissima arma bellica, un mostro da horror che scatena presto il panico e la morte negli anfratti più bui: la Creatura di Gyeongseong.
Senza fare spoiler, ho cercato di sintetizzare in poche righe (nemmeno così poche) un drama complesso, che si presenta già come una strana creatura, a metà tra lo storico e l’horror, che cerca di creare cinema d’autore, ma strizza, poi, l’occhio alle produzioni americane (e a Netflix su tutto), che riprende la dialettica sugli esperimenti e sulle atrocità di guerra commesse dai giapponesi e le mischia con l’antologia dei kaiju (genere tutto giapponese che ha fatto sorgere Godzilla e altro), che struttura una storia d’amore, inerpicando rimandi poetici da Kim Suwol (il rimando alle fioriture), ma la fa vivere negli angusti spazi sci-fi di Alien. Però, avevo scommesso su questa visione, pur sapendo in anticipo, al contrario di altri, che non sarebbe stata semplice e che avrebbe osato un mix di generi e di contenuti quasi stridenti tra loro. E avevo scommesso per ben due motivi, connessi al retaggio culturale e cinematografico a cui sono sempre stata legata: la storia della lotta coreana per l’indipendenza e delle atrocità portate dalla guerra e dalla perversione mostruosa della mente umana e le storie di orrorifici sci-fi che sono metafora di noi stessi e che, dietro la costruzione di un mostro, riescono sempre ad aprire il baratro della coscienza.
Ecco, forse è per tutti questi motivi che la delusione nel vedere questo prodotto è stata grande. E, tanto vale scriverlo subito e togliermi questo pensiero, non posso dire che Gyeongseong Creature sia un prodotto brutto o che non mi sia piaciuto (e sono anche consapevole del fatto che non posso ancora dare un mio giudizio definitivo, visto che Netflix ha previsto un seguito, che, per fare un grosso non-spoiler, sarà ambientato ai giorni nostri), ma personalmente mi aspettavo molto di più e, in tutto ciò, non posso che leggere questo drama (che drama non è) come un’occasione mancata, una creatura a metà tra la narrazione orientale e la serialità occidentale, ma che ancora non sa se vuole essere un k-drama o un’ibridazione con Stranger Things. Purtroppo, è una sensazione che ho avvertito dopo i primi episodi (perché i primi erano davvero perfetti in sé), come un leggero fastidio che mi ha accompagnato per i cunicoli bui e le prigioni giapponesi e che ho tentato di tacere dopo il settimo episodio, diventando, invece, prorompente nel finale.
Cosa non ha funzionato del tutto in questa serie? Troviamo una recitazione curata e degli effetti tecnici, comprensivi di scenografia, costumi, fotografia e musica impeccabili, estetici e quasi rarefatti, un gioco di chiaroscuri da far invidia a certo cinema e tante (ma forse troppe) idee sparse e mischiate insieme. Perché, vedete, se la trama fosse stata esattamente quella che ho scritto sopra, seguendo quell’intreccio e quella narrazione, e se i personaggi avessero avuto (tutti) il loro spazio per esprimere se stessi, allora, si sarebbe raddrizzato qualcosa e tutto il prodotto ne avrebbe giovato. Al contrario, alla bellezza dei primi episodi e alla presentazione della causa per l’indipendenza coreana e dei due personaggi principali (con l’incontro delle loro anime), fanno seguito cunicoli dopo cunicoli, buio, oscurità, sparatorie (e, badate bene, sono una che con le sparatorie alla John Woo ci andava a nozze sin da ragazzina), soldati giapponesi che sparano e muoiono in modo insensato, ma, poi, si moltiplicano come per micosi, sparano e muoiono ancora, scienziati pazzi che litigano con soldati giapponesi, soldati giapponesi che tradiscono e cambiano causa, ma senza aver dato ancora la possibilità allo spettatore di afferrarne almeno il nome, buio, cunicoli dopo cunicoli, esplosioni… Tutto così, in un pot-pourri in stile Marvel, dove, alla fine, non si riescono nemmeno più a seguire i personaggi (quante volte entra ed esce dalla prigione Park Seo-joon e come fa Han So-hee a rimanere sempre miracolosamente viva, anche quando le sparano in testa?). In quest’azione che ha la meglio sulla trama e incombe tutto quasi a far ricordare che Netflix vuole fare una produzione propria e se ne frega di certi canoni da drama, i personaggi vivono e agiscono in modo perfettamente irrazionale e illogico, con una visione ancora più inquietante, se si pensa che fino ai primi episodi erano stati razionalissimi e coerenti con le proprie idee: senza fare spoiler, si tenga presente che, per organizzare un’esplosione al piano di sopra e salvare tutti al piano di sotto, bisogna prima accertarsi che le persone a cui si tiene siano effettivamente evacuate o si rischia di fare un sacrificio inutile (manuale di base imparato da un’innumerevole letteratura su resistenza e partigiani, che si poteva recuperare in un baleno); nello stesso modo, per liberare 13 coreani, ne muoiono una trentina, mentre un numero imprecisato viene fermato, bastonato e messo in carcere (e non erano galere da cui si sopravviveva gradevolmente); l’inesistenza di piani che, poi, si rivelano solo per colpi di fortuna (con l’utilizzo della Creatura, talvolta, come un vero e proprio espediente narrativo) o la decisione di attentati che prevedono già un finale tragico perché nessuno ha pensato a delle vie di fuga; personaggi secondari che potrebbero avere una grande eco, ma che vengono dimenticati nell’anfratto di qualche pagina della sceneggiatura (così un Wi Ha-joon usato, a mio parere, malissimo e al di sotto delle sue potenzialità, come se gli fossero state tagliate le battute, o il pittore che si sono ricordati di riprendere solo alla fine, abbandonato durante gli episodi in un luogo non precisato della prigione); la storyline principale tra i due protagonisti (molto bravi, per carità) lasciata in balia degli eventi e ripresa, poi, a forza nel finale senza aver dato il tempo e il modo di una costruzione degna, ma soprattutto cambiando totalmente il continuum e la coerenza del loro pensiero e delle loro azioni. In tutto ciò, l’unica coerenza logica, seppur nel male, che rimane intatta sembra essere quella della perfida Lady Maeda.
Il vero tasto dolente, però, è un altro. La serie ha il merito di essere uno dei rari prodotti che narrano le sperimentazioni atroci condotte dalle forze occupanti giapponesi ai danni di prigionieri di guerra e prigionieri politici (in prevalenza, coreani e cinesi) e ha avuto l’opportunità di uscire in un periodo temporale particolarmente favorevole: è di poco tempo fa la sentenza della Corte d’Appello coreana che ha riconosciuto la possibilità per gli eredi delle cosiddette “comfort women” di chiedere un risarcimento al governo giapponese (con non poche diatribe provenienti da parte giapponese, che fatica ancora a riconoscere un passato storico così gravoso) ed è ormai argomento di tutti i giorni parlare della lotta per l’indipendenza coreana, anche superando gli influssi politici che hanno contraddistinto molto parti in causa (a cominciare dai gruppi legati alle ideologie comuniste e socialiste, determinanti per l’indipendenza, ma messi a tacere fino a qualche decennio fa per la paura dei “rossi nordcoreani”). Era una bella occasione, che è stata sprecata per calcoli commerciali o che, forse, ha mancato di coraggio e non ha saputo osare per arrivare dove gli altri avevano solo accennato. Perché, nonostante la Creatura sembri solo un discorso di fantascienza, esperimenti di quel tipo erano effettivamente condotti da tante parti belligeranti e la Creatura non è altro che il prodotto di una ragione addormentata e traumatizzata, resa cieca dagli scoppi della guerra e dell’etica aggressiva di chi vuole vincere e prevaricare. La Creatura è una vittima, a cui si crede di togliere l’anima per trasformarla in arma da guerra, ma che diventa, al tempo stesso, il carnefice contro chi ha permesso ciò, rifugiandosi nei suoi affetti primordiali con la sicurezza di trovare casa. Ed ecco forse la mia delusione più grande in merito, perché gli errori di logica negli ultimi episodi si possono anche perdonare, ma la mancanza di coraggio per comprimere tutto in un prodotto gradevole al grande pubblico e garantirsi un seguito (o una saga?) ha spogliato delle vere motivazioni di libertà e lotta questo prodotto.
Sono in parte stata risarcita solo dall’attrice protagonista, Han So-hee, che forse ha accettato il lavoro per gli stessi motivi per cui ho visto il drama e che ha avuto il coraggio che è mancato alla produzione Netflix, pubblicando sul suo account personale Instagram un post in cui celebra la forza e la resistenza dei coreani contro i soprusi del regime giapponese: “Non era solo il romanticismo di Kyungsung, non le creature della forza giapponese, ma la storia delle persone in quel momento era brillante e oscura per affrontare i mostri nati in un esperimento che facilitava gli umani. L’anno in cui potevamo essere forti solo abbracciandoci con amore“.
Grazie anche solo per questo messaggio.
Laura
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9 pensieri riguardo “Gyeongseong Creature – La creatura di Gyeongseong (ovvero il sonno della ragione che genera mostri)”