“Che cosa ho mai fatto? Perché devo andare là, quando non ho mai fatto nulla di male?”.
“Sei colpevole di avermi trovata prima che io trovassi te”.
Lo ammetto: l’attendevo. Anzi, la cercavo quasi in modo spasmodico, non tanto questa serie, ma proprio La Serie, quella che potesse galvanizzarmi davanti allo schermo per ore di fila, senza sentire il peso della stanchezza, né il formicolio delle membra. La anelavo da tempo, come una boccata di ossigeno, in mezzo a tanti e variegati prodotti che mi hanno coinvolta con alti e bassi. La volevo tantissimo, per dimostrare quello stacco di qualità che la produzione artistica sudcoreana ha ormai intrapreso da anni, una lunga linea continua che incatena a sé titoli come Parasite e Squid Game. Eppure, al tempo stesso, quasi la temevo, rintanata impaurita in un angolino, come quando si aspettano i terribili temporali, conscia della grandiosità di quel temibile trailer, predominato dall’oscura e volatile presenza della Morte, assisa al suo tavolo come nella famosa scena de Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman, pronta a giocare la sua letale ultima partita contro l’umanità.
L’umanità (ovvero il cavaliere del Sigillo) in Death’s Game (tratto dal webtoon Yi-chae, you’re going to die soon – 이재, 곧 죽습니다 – di Lee Won-sik e Gguchan) è rappresentata da Choi Yi-chae (interpretato magistralmente da Seo In-guk di I misteri del Café Minamdang e Doom at Your Service). Sette anni prima, in anticipo sulla sua laurea, Yi-chae era stato selezionato per un colloquio con un’importante azienda, la Taekang, ma, al momento di recarsi sul posto di lavoro, era stato testimone dell’investimento di un uomo, che aveva agonizzato tra le sue braccia. Il fatto aveva condizionato per sempre la vita di Yi-chae: arrivato scosso e tremante al colloquio, non era riuscito a fare una bella figura e aveva fallito dall’ottenere il posto di lavoro, senza più avere alcuna possibilità di essere richiamato, mentre i debiti accumulati e il prestito universitario lo avevano costretto a fare tanti piccoli lavori e a rinunciare a qualsiasi carriera. Gli anni scorrono e lasciano Yi-chae sempre più triste e sconfortato, impossibilitato anche di sposare la sua fidanzata storica, la giovane scrittrice Lee Ji-su (interpretata da Go Youn-jung di Alchemy of Souls 2, Sweet Home e Hunt), e di costruirsi una vita, fino a quando non viene chiamato nuovamente per un colloquio presso la sua azienda dei sogni. Solo che, stavolta, la chiamata si rivela un gioco crudele del destino e durante il colloquio Yi-chae viene umiliato e sbeffeggiato dal figlio del CEO, Park Tae-woo (un cattivissimo Kim Ji-hoon di Money Heist Korea 1 & 2, Ballerina e Flower of Evil). Amareggiato dalla vita, senza più sicurezze, senza un lavoro o la possibilità di ottenerlo, senza casa e senza soldi, Yi-chae sale sul cornicione del tetto del suo palazzo e prende la decisione di togliersi la vita, perché la vita non ha più significato per lui e si è tramutato in un continuo dolore, mentre la morte è solo un mezzo per porre fine alle sue continue sofferenze umane. Abbraccia la morte, perché non la teme, e la sfida, perché ripudia la vita. Spegne il cellulare, chiudendo la telefonata alla madre (una bravissima Kim Mi-kyung di Healer, Welcome to Samdal-ri e tanti altri), e si butta.
La Morte emerge da un fondale tetro come un fumetto di Frank Miller in un mondo infernale che pare le acqueforti dantesche di Gustave Doré e, con il volto da elfo di Park So-dam (Parasite, Cinderella and Four Knights), spiega a Yi-chae che ha commesso spergiuro nei suoi confronti e nei confronti di Dio e che, pertanto, è destinato ad andare all’inferno. Ma, prima, è stato condannato a scontare la punizione richiesta dalla Morte stessa, offesa per il fatto che Yi-chae l’ha cercata senza che lei lo volesse e risentita per essere stata giudicata solo un mezzo per rimuovere le sofferenze. Yi-chae viene condannato a vivere 12 esistenze quasi in punto di morte, una per ogni proiettile che la Morte gli fa esplodere in testa e una per ogni battito d’ora, con l’obbligo di cercare la vita e sopravvivere nel corpo che gli è stato dato: solo così, infatti, può liberarsi della punizione e convincere Dio, nella sua infinita bontà, di non mandarlo all’inferno.
Ed è così che Yi-chae chiude gli occhi e si risveglia, di volta in volta, in tante diverse esistenze a lui ignote, possessore di corpi mai visti e capace di acquisirne i ricordi, ma anche di assorbirne le tristezze e i dolori: il milionario Park Ji-tae (Choi Siwon dei SuperJunior, anche visto in Work Later Drink Now 1 & 2), erede e figlio minore del CEO della Taekang; l’atleta di sport estremi Song Jae-seop (Sung Hoon di My Secret Romance e Perfect Marriage Revenge), che vuole lanciarsi senza paracadute; l’adolescente bullizzato Kwon Hyeok-su (Kim Kang-hoon, già giovane prodigio in When the Camellia Blooms, Mouse e Kingdom), che vorrebbe suicidarsi per la disperazione; l’agente criminale Lee Ju-hun (Jang Seung-jo di Encounter e Snowdrop) in cerca di un tesoro; il ventenne Cho Tae-sang (Lee Jae-wook di Alchemy of Souls 1 & 2, DoDoSolSolLaLaSol e Move to Heaven), che sconta in carcere minorile una condanna ingiusta; un bambino neonato con genitori orrendi; il giovane fotomodello Jang Geon-u (Lee Do-hyuk, che abbiamo già adorato in The Good Bad Mother, 18 Again, Youth of May e The Glory), che riesce ad incontrare il dolore provato dalla madre e dalla fidanzata di Yi-chae dopo la sua morte; il misterioso artista Jung Gyu-chul (Kim Jae-wook di Crazy Love e Coffee Prince), che crea opere dalle sofferenze umane; il detective di polizia An Ji-hyung (Oh Jung-se di It’s Okay to not be Okay, Jirisan e When the Camellia Blooms), che da uomo timoroso diventa presto un eroe; un barbone smemorato (Kim Won-hae di Strong Woman Do Bong-soon, Youth of May e tanti altri); un impiegato licenziato (il caratterista Kim Gun-ho); e un’ultima vita di cui non svelo nulla.
Tante vite, che, all’apparenza, sembrano non avere nulla in comune e che, invece, si scoprono intrecciate tra loro e legate, in qualche modo, al protagonista in una rincorsa alla vita che diventa sempre più pregnante, perché ogni esistenza porta con sé nuovo dolore e nuova sofferenza, ma anche la consapevolezza che la vita va affrontata con tutte le sue piaghe e con i suoi rari momenti lieti: “Le persone sono più felici quando possono essere se stessi. Alla fine, la vita sarebbe priva di significato se non puoi essere mai veramente te stesso“. E, infine, con la consapevolezza che ogni nostro atto umano è intersecato a tanti atti umani e ogni nostro più piccolo respiro assume significato alla luce e agli occhi delle emozioni di coloro che ci stanno vicino: “Perché non ho realizzato che avevo persone nella mia vita che potevano soffrire con me durante i momenti difficili?“.
La Vita non è mai bella, ma, come diceva tempo fa William Goldman, è solo un tantino meglio della Morte. Solo che la Vita è anche un dono prezioso che ci viene dato alla nascita e che tutti coloro che ci amano concorrono ad assicurare e confortare giorno per giorno, fino alla fine, incrementando quel valore che va a caratterizzare la vita stessa e a riempirla di significato. Perché la vita è un’opportunità che va vissuta sempre, va “giocata” fino in fondo e, anche se tutto può andare male, la vita va custodita per quella luce di speranza che la alimenta in sé, per quel dono che è stato concesso e che richiede il tempo necessario per farlo fiorire e far prendere il volo. Non esistono solo vite grandiose ed eroiche o vite felici e ricche. Tutt’altro. Gran parte di noi vive in modo grigio e anonimo, una macchietta di Magritte disseminata nel vuoto caotico e sovrappopolato dell’umanità, e, se tutto va bene, si chiede solo che la vita possa proseguire così, piatta e pacata, senza turbinii ed eccessi di qualsiasi sorta, per poter strappare la speranza di quei rari momenti di luce e di calore, che arrivano come una giornata di sole in mezzo alla tempesta. Vivere fa sempre paura, perché porta in sé tutto l’ignoto del mondo, tutte le variabili di cui si carica l’esistenza umana, eppure, nonostante tutto, vogliamo vivere, vogliamo portare avanti le nostre oscure e grigie esistenze per quei rari momenti, per quegli attimi diversificati che si alternano come i giorni di un calendario, brutti o belli che siamo, ma parte di noi stessi. Per cui, vorrei concludere con le parole dello stesso protagonista, dopo aver giocato contro la Morte:
“Non stai vivendo veramente, se vivi sempre nella paura. Ma siccome ero un codardo, vivevo nella paura costante. Preoccupato che il mondo non riconoscesse il mio dolore, che sarei rimasto indietro, e che sarei stato respinto, ho finito per togliermi la vita per questa paura, ancor prima che la vita potesse sbocciare davvero. Solo dopo essere morto, avevo capito che la vita stessa era un’opportunità. E il dolore che pensavo mi stesse divorando non era così grande. Belle giornate. Giornate in cui piove. Giornate in cui c’è vento. Ho imparato che la vita è fatta da giorni diversi e che va benissimo fallire, finché si continua ad andare avanti”.
Vivete e fallite. Cadete, fallite ancora più in grande e, poi, rialzatevi. Abbiate cura di voi stessi, ma continuate a vivere senza timore.
Captain-in-Freckles
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2 pensieri riguardo “Death’s Game – Il gioco della morte (ovvero dell’opportunità di vivere)”