“Combatteremo. Se combatti per il tuo paese, sei considerato un soldato. Se combatti per proteggere la tua famiglia, sei, invece, un bandito. Non è così?”.
Polvere. Paesaggio assolato. Raggi luminosi che accecano gli occhi. Un alito di vento che solleva ancora più polvere e nasconde il sole. Stivali sporchi di fango e di terra ocra. Rumore di passi. Musica sottile che viene dal fondo. Occhi nascosti da un cappello. Piano sequenza lunghissimo. Stacco. Movimento di braccio fulmineo come in cerca di qualcosa. Una lama di luce sugli occhi. La canna di un fucile. Stallo alla messicana. Interminabile immutabilità. Fuoco.
Sembra un film di Sergio Leone quest’epopea un po’ romantica e decadente della storia dell’indipendenza coreana dalla supremazia giapponese. E, in effetti, la narrativa e lo stile ricordano in toto il genere western della ricerca della frontiera americana, ma riletto con la malinconia trasognata leoniana, che si appiccica ai personaggi come una seconda pelle e che sa scindere tra l’irraggiungibile eroismo dell’epica e l’umanità stropicciata e delusa della vita, ma che sa diventare grande da sola. Come i personaggi protagonisti dell’interpretazione western di Sergio Leone, non abbiamo di fronte degli eroi, dei guerrieri o dei patrioti, uomini buoni in tutto e per tutto, ma dei cosiddetti “banditi”, uomini feriti dalla vita e dal passato, che sanno di diventare fuorilegge, ma che vivono in tal modo per la loro patria più grande: la propria famiglia. E la terra di confine di Gando (Jiandao in cinese e Kanto in giapponese), una regione paludosa e desertica lungo il fiume Tumen, zona di confine tra Corea, Cina e Siberia, soggetta ai venti di sabbia del Deserto del Gobi e alla natura selvaggia della Manciuria, si presta benissimo come teatro di un dramma di frontiera che è, anzitutto, dramma di libertà.
All’indomani della fine della guerra russo-giapponese (1904-1905) e della perdita d’indipendenza della Corea (che divenne protettorato giapponese nel 1905 e ufficialmente sua colonia nel 1910), l’ex schiavo Lee Yoon (interpretato da Kim Nam-gil, perfetto action man anche in The Priest e Island part 1 e part 2) abbandona la truppa coreana nell’esercito giapponese e il suo ex padrone Lee Kwang-il (il segalino Lee Hyun-wook, visto anche in Matrimonio e Desideri e Strangers From Hell) ed emigra verso Gando, una terra di nessuno o, meglio, una terra “dove l’autorità è cinese, i soldi sono giapponesi e la popolazione è coreana“, come dice l’ex schiava Kim Seon-bok (Cha Chung-hwa, caratterista d’eccezione in Crash Landing on You, Hometown Cha-Cha-Cha, See You in 19th Life e tanti altri), liberatasi e diventata una ricca contrabbandiera in questa strana e polverosa no man’s land. Le strade di Gando, infatti, sono battute dalle truppe giapponesi, che, però, non possono intervenire in autorità, visto che il dominio governativo è cinese e lasciano il lavoro “sporco” a bande di banditi cino-mongoli, il cui compito è stanare ed eliminare ipotetici nemici dell’impero nipponico – coreani indipendentisti, in primis. In questo caos generale, si sopravvive, senza far mai trasparire le proprie idee e le proprie opinioni; si mantengono buoni rapporti con tutti, ma con il fucile nascosto sotto il tavolo; si guadagnano tanti soldi, se non si ha alcuno scrupolo, e ci si trasforma presto in fuorilegge.
Lee Yoon, però, vive dei sensi di colpa perché, nel passato, ha tracciato e indicato all’esercito nippo-coreano la strada del villaggio dove si rifugiavano i nazionalisti coreani e si considera, quindi, la causa indiretta di un massacro. Per lui, il viaggio a Gando è un incontro con se stesso e con il proprio destino, in cerca di una punizione letale, che non riesce ad infliggersi da solo. Ed è in questo stato d’animo che si imbatte in Choi Chung-soo (interpretato da Yoo Jae-myung, grandissimo attore, visto già come villain principale di Itaewon Class e avvocato idealista in Vincenzo), nobile Joseon ed ex generale invincibile dell’esercito reale coreano, ma anche capo dei Giusti, gruppo nazionalista e indipendentista di matrice cristiana che si opponeva alla prima invasione giapponese e che era stato massacrato anni prima (“Ho tentato di salvare il mio paese al di là delle mie possibilità e non sono riuscito a salvare la mia famiglia, la cosa più preziosa“). Lee Yoon, che si sente responsabile per le perdite di Choi Chung-soo, si confessa e chiede la morte. Al contrario, non solo trova misericordia, ma anche accoglienza, come se fosse parte non tanto di un gruppo di compatrioti sfollati, quanto di una vera e propria famiglia: “Vivi la tua vita in modo tale che tu non abbia rimpianti. Così, io vivrò la mia in modo tale che non abbia alcun rimpianto“.
Lee Yoon giura di proteggere la sua nuova famiglia e gli sfollati coreani ad ogni costo, anche diventando un bandito in quel mondo fatto solo di sparatorie e di violenza, dove la vita di ognuno è effimera e soggetta al cambiamento repentino di autorità. Per questo motivo, rafforza il suo piccolo gruppo di vigilanti con elementi degni da I Magnifici Sette, La Collina degli Stivali o altri elementi corali della migliore narrativa western: Chorang-y (Lee Jae-kyoon, Secret Royal Inspector and Joy), un acrobata da circo sempre su di giri e specialista di coltelli; Kang San-gu (Kim Do-yoon), un cecchino nevrotico e oppiomane, munito di occhialini; Geum-so (Cha Yeop), un gigante grande e grosso che non usa mai le armi, ma dà pugni in testa degni di Bud Spencer.
Gli anni passano, la famiglia di Lee Yoon trova il suo posto saldo a Myeongjeong contro esercito giapponese e banditi cinesi (capeggiati da Jang Ki-ryong, interpretato da un Han Gyu-won così feroce che sembra Gengis Khan). Iniziano gli anni ’20, storicamente i più complessi per la storia dell’indipendenza coreana. La morsa giapponese è diventata sempre più violenta in patria, soprattutto dopo il fallimento del Movimento del Primo Marzo (di cui abbiamo parlato a proposito del poeta Dong-ju e dell’attivista per l’indipendenza Yu Gwan-su), e gli indipendentisti si riorganizzano con il governo in esilio in Manciuria. Per portare avanti la propria missione richiedono una certa somma di soldi, custodita da Nam Hee-shin (Seohyun delle Girls’ Generation, vista anche in Love and Leashes, So I Married An Anti-Fan e Moon Lovers), nobile e funzionaria delle ferrovie dalla doppia vita di indipendentista e di fidanzata del maggiore del 37esimo reggimento di fanteria Lee Kwang-il, ora detto Miura. Compito di Hee-shin è fingere un viaggio di lavoro e portare i soldi dalla Corea alla Manciuria attraverso la terra di Gando, sfidando sia le autorità locali e l’esercito giapponese, sia gli innumerevoli banditi che, in qualche modo, vogliono impossessarsi del denaro, sia, infine, i nazionalisti coreani, che vogliono minare la ferrovia per non consentire il passaggio ai giapponesi. In mezzo alle insidie, però, si imbatte in Lee Yoon, che, non a caso, l’aveva conosciuta anni prima, quando era solo uno schiavo, e che, dal loro primo incontro, continua ad amarla silenziosamente: “Strano come mi sia venuta in mente non appena sono arrivato qui. Lei è stata la mia prima volta in molte cose: è stata la prima nobile che si è rivolta a me e ha chiesto il mio nome e non quello del mio padrone, la prima a prendermi la mano e a sorridermi ed è stata la prima persona che mi ha reso felice con un semplice sguardo“. Lee Yoon giura di proteggere Hee-shin e di farle portare a termine la sua missione “per la speranza e per il bene di Joseon“.
Le strade della vita trovano strani e complicati incroci e, mentre Hee-shin non riconosce Lee Yoon, ma si fida ciecamente di lui e Kwang-il la insegue come corriere indipendentista, ignorando che sia la sua fidanzata, ex schiavo ed ex padrone si incontrano e si scontrano, generando un duello che inizia e riprende a più fasi e che persegue tutto il drama, talvolta in solitaria (con momenti carichi di tensione, battute che suonano come minacce e fendenti sospesi e, infine, tanti stalli alla messicana, che farebbero impazzire di gioia Quentin Tarantino, e con rimando nemmeno tanto nascosto alla storia dell’ex schiavo Django), e talvolta portandosi dietro tutti i propri eserciti personali (con assedi da I Magnifici Sette e scontri epici da Sfida all’O.K. Corral, ma anche con assalti ai treni e corse a cavallo degne di Giù la testa) in un canto di spade e di fuoco che incanta e corre in modo dirompente in mezzo alle tempeste di sabbia: “Quello che abbiamo potuto sentire attraverso il suono delle nostre spade: è il momento che lasciamo sentire ai giapponesi questo canto. Il canto dei banditi“.
In tutta questa diatriba, s’inserisce quella piccola scheggia impazzita di Eon-nyeon (interpretata da Lee Ho-jung, secondaria in Nevertheless;), fuorilegge, assassina a pagamento e cacciatrice di taglie senza scrupoli e disillusa (“Per me, il vero paradiso sono i soldi“), che è il personaggio più leoniano di tutta la serie, una che sembra uscita direttamente da Il buono, il brutto e il cattivo, ma non come comparsa, quanto come protagonista (“Posso lavorare nella parte pericolosa, ma vivo la mia vita in quella sicura“). E, se, voi che leggete, avete una personale classifica di badass queens dei drama, fate molta attenzione, perché dovete rivederla completamente dopo aver conosciuto questo personaggio. Basti solo pensare a come si introduce senza sospetto nella storia, nelle vesti di una semplicissima figlia orfana di Joseon, povera e affranta, ma in attesa di Lee Yoon per ucciderlo; per non dimenticare la sua carneficina nella casa da tè, che supera in tutto e per tutto Kill Bill; per finire a come ricompare anni dopo, vestita perfettamente di nero come Lee Van Cleef (da vedere sia la scena del treno, che quella in cui divora letteralmente le patate bollite, rimodellate sul personaggio del Colonnello in Per qualche dollaro in più), con tanto di sigaro in bocca e risata sghemba e di traverso, più matura e pronta a prendere le proprie decisioni di vita, qualsiasi cosa potrà dire il destino (“Combattere con le unghie e con i denti per la propria vita mi ha cambiata. Credo che sia inutile nutrirsi di rabbia e di vendetta. Prendermi cura di me stessa è tutto ciò che m’importa“). Tra lei e Lee Yoon c’è un rapporto unico che parte dall’odio e dalla rivalità per arrivare alla reciproca stima e fiducia, un’amicizia e una cooperazione che solo in un’epica western era possibile trovare e che, credetemi, supera qualsiasi venatura romance (il momento del loro combattimento, soli contro tutti, per liberare gli ostaggi coreani è una delle sequenze più belle del genere).
Song of the Bandits (도적: 칼의 소리, traducibile con Thief: Sound of the Sword) è un period drama diretto da Hwang Jun-hyeo e scritto da Han Jeong-hoon, di genere action e western (o, meglio, eastern, come alcuni cultori del cinema amano definire questa rilettura in terra distante dalla frontiera americana), che s’inserisce benissimo in uno stile già bazzicato e curato in precedenza dal cinema coreano (vedi l’estroso Il buono, il matto e il cattivo, ma anche lo spy-crime The Assassination) e che ha il merito di rendere più fruibile una parte di storia, altrimenti poco nota, anche per l’ammassarsi di tragici eventi avvenuti.
Gando era, in effetti, una terra di confine in quel periodo o, meglio, era una regione che s’insinuava nel territorio cinese, ma era abitata da popolazione in prevalenza coreana: con l’arrivo del Giappone e la caduta del regno (nelle ultime fasi, impero) di Joseon sotto il suo dominio, Gando si riempì ancora di più di immigrati coreani (insediatisi anche in Manciuria) e il Giappone iniziò a rivendicarne la propria autorità (è del 1907 il cosiddetto Massacro di Gando, compiuto da un’infiltrazione dell’esercito giapponese nel territorio cinese ai danni dei nazionalisti coreani rifugiatisi e ben narrato all’interno del drama). Le frizioni tra il governo imperiale giapponese e l’impero cinese dei Qing produssero un accordo secondo il quale il Giappone riconosceva i diritti sul territorio della Cina in cambio di concessioni economiche e territoriali in Manciuria (Accordo di Gando del 1909). Di fatto, però, giacché il Giappone, dopo l’annessione totale della Corea nel 1910, iniziò a considerare tutti i coreani come propri cittadini, per diversi anni e fino alla drammatica conquista della Manciuria, pretese di avere giurisdizione sulla maggior parte degli abitanti di Gando di origine coreana (motivo per cui rimaneva di stanza sia l’esercito che la polizia del consolato e, come è possibile vedere nel drama, i due contingenti andavano spesso in scontro tra loro). Tuttora, la regione, che oggi appartiene alla Repubblica Popolare di Cina, conserva la sua caratteristica etnica e culturale coreana, tanto da essere diventata dal punto di vista amministrativo la Prefettura Autonoma Coreana di Yanbian nella Provincia di Jinlin. Nel drammatico periodo dell’occupazione giapponese, in Manciuria si nascondeva, in effetti, il governo in esilio della Corea, che scrisse, tra l’altro, la prima Costituzione coreana nel 1919 e Gando era una zona di passaggio per i corrieri di informazioni e denaro ai gruppi indipendentisti, sia di matrice conservatrice e nazionalista (per la restaurazione di Joseon), sia di ispirazione comunista (per l’instaurazione di una repubblica socialista). La comunità cristiana ha svolto un ruolo importante nella lotta per l’indipendenza della Corea, tanto da avere avuto una notevole influenza sul Movimento del Primo Marzo e sugli intellettuali del periodo, che univano le istanze di libertà comprese nel messaggio evangelico alla lotta contro il regime.
Consigliato: a tutti, perché, anche se ci sono scene violente (tra sparatorie e interrogatori-tortura, il drama non risparmia certo sangue), è un prodotto scorrevole e coinvolgente, che sa di cinema di una volta e che cattura l’attenzione sempre; ma, in particolare, a chi, come la sottoscritta, è cresciuto a pane e antologia western e sa a memoria tutti i film di Sergio Leone perché “Questo treno ferma [sempre] a Tucumcari”. E non c’è altro da aggiungere.
Captain-in-Freckles
Come suona la nostra recensione?

8 pensieri riguardo “Song of the Bandits (ovvero il canto dell’acciaio, del fuoco e della libertà)”