“Per quanto terrificanti siano le armi di cui si dispone, per quanto numerosi siano i poveri robot che si manovrano, vivere distaccati dal suolo non è possibile!”.
Alzi la mano chi non ha mai sognato di volare. E non solo come Icaro con le sue ali di cera al cospetto del sole. Ci basterebbe anche solo fluttuare leggeri nel cielo sfidando la forza di gravità e, almeno, una decina di leggi fisiche, magari sorvolando la terra a bordo di una nuvola. L’umanità ha sempre sognato di volare e, già prima che inventasse gli aeroplani, ha codificato tutto un mondo segreto e aeriforme di leggende che riguardavano navi volanti, pirati dell’aria e continenti che vanno al largo della volta celeste insieme alle nubi. Il signor Lemuel Gulliver, protagonista de “I viaggi di Gulliver” di Jonathan Swift, s’imbatté per caso proprio in uno di questi continenti erranti nel cielo, un’isola, per la verità, di nome Laputa, manovrata meccanicamente dai suoi abitanti scienziati attraverso un magnete, che agiva sulla base di adamante dell’isola, e dotata di tutta la tecnologia e l’equipaggiamento bellico più avveniristico che si potesse immaginare. Dopo il signor Gulliver, toccò ad Hayao Miyazaki, uno dei fondatori dello Studio Ghibli e uno dei più grandi registi d’animazione di tutti i tempi, approdare sull’isola volante. E fu un viaggio fortunato, perché, illuminato dal successo di una serie come Conan, il ragazzo del futuro (1978) e di una pellicola come Nausicaa nella valle del vento (1985). Il viaggio verso Laputa fu il primo in assoluto marcato Studio Ghibli e data 1986, anche se la trama di Laputa – Il castello nel cielo inizia molti anni prima o molti anni più tardi, sospesa in un universo steampunk che è un po’ futuro tecnologico e un po’ XIX secolo.
In un mondo dove imperversano i pirati del cielo, che si fanno la guerra fra loro usando delle aeronavi degne di Jules Verne e del suo “Robur il Conquistatore“, una ragazzina solitaria di nome Sheeta viene inseguita da criminali di ogni tipo, che si vogliono impossessare di una strana pietra che porta al collo e che diffonde una luce sinistra intorno a sé (e vi riecheggerà nella mente anche qualcosa della serie anime Il mistero della pietra azzurra, che s’ispira sempre ai romanzi di Verne). Mentre cerca la salvezza, fuggendo dal finestrino dell’aeronave, precipita e cade addosso a Pazu, un giovane minatore di buon cuore, che vaga sui tetti e parla con i colombi e che racconta a Sheeta la leggenda di un’isola errante nel cielo di nome Laputa, i cui abitanti pare che si siano estinti per un cattivo uso delle armi. Insieme a Pazu, Sheeta si sente talmente sicura e protetta da rivelargli il segreto del suo nome completo (Lusheeta Toel Ul Laputa) e le strofe di una vecchia ninna nanna che si tramanda nella sua famiglia (“Mettendo radici nel suolo, viviamo insieme col vento! | Si passi l’inverno insieme coi semi! | Cantiamo la primavera insieme con gli uccelli!“). Tuttavia, solo il vecchio minatore Nonno Pom è in grado di rivelarle qualcosa riguardo alla pietra che porta e al motivo per cui tutti la vogliono: “In quella pietra vi è un forte potere. Avendo vissuto in compagnia delle sole pietre io posso ben capirlo, però… Sappi che le pietre in cui vi è potere, così come possono rendere felici le persone, possono pure richiamare la disgrazia. Per di più quella pietra è creata da mani umane, il che… mi dà da pensare“.
I pirati sono solo l’ultimo dei problemi di Sheeta. Il vero inseguitore, infatti, si rivela essere ben presto il colonnello Muska, un tizio alto e biondo come un vichingo, ma con gli occhialini del Dottor Stranamore di Kubrick e la follia insita di un Hitler. Muska, che ha asservito ai suoi ordini esercito e tutte le istituzioni, rivela a Sheeta la grandezza nascosta dietro la pietra, che non è altro che un residuo della grandezza di Laputa e serve ad annullare la forza di gravità e a risvegliare la potenza tecnologica e bellica dell’isola nel cielo, rappresentata da enormi automi militari in grado di svolgere le guerre a distanza e di devastare ogni cosa. Sheeta, a questo punto, scopre di essere l’erede della grandezza di Laputa e recupera i vecchi ricordi insegnati dalla nonna e che nascondevano nelle parole magiche di qualche filastrocca dei veri e propri comandi per dispiegare la forza di Laputa. Scopre, col tempo, anche la potenza distruttiva sia della pietra, sia delle parole magiche, che, infine, della tecnologia stessa di Laputa, che l’ha portata alla rovina e alla morte, già per il fatto di avere avuto la presunzione di fondare le proprie radici nelle nuvole. “Adesso, perché Laputa si sia estinta io lo capisco bene. (…) Per quanto terrificanti siano le armi di cui si dispone, per quanto numerosi siano i poveri robot che si manovrano, vivere distaccati dal suolo non è possibile!“.
La fuga dei ragazzi dall’esercito e dal colonnello Muska diventa rocambolesca e affannata e passa dalle viscere della terra, dove si trova la miniera presso cui lavora Pazu, alle nubi del cielo, dove hanno sede le aeromobili dei pirati che perseguitano Sheeta e l’esercito di Muska. Però, grazie alla nave pirata di Dola, un’arzilla piratessa non più giovane che tiranneggia i suoi figli adulti come unico equipaggio della propria nave, Sheeta e Pazu riescono a fuggire periodicamente da Muska, ostacolandolo nella realizzazione dei suoi progetti e, quindi, nello svolgimento di una “guerra totale” e nel tentativo di risvegliare sull’isola volante una potente arma di distruzione di massa che lo avrebbe reso padrone di tutto il pianeta, massacrando gran parte del genere umano. Solo che fuggire non è sufficiente, quando si incontra una simile e malevola depravazione e, ad un certo punto, Sheeta è costretta a fermarsi, a recuperare la memoria atavica dei suoi avi e i segreti del potenziale distruttivo di Laputa e ad affrontare direttamente Muska e, con lui, tutti coloro che corrono verso la distruzione e che hanno elevato la guerra a proprio idolo (“Vi farò vedere… la folgore di Laputa! […] Nell’Antico Testamento è il celeste fuoco che devastò Sodoma e Gomorra, mentre nel Rāmāyaṇa lo si tramanda come la freccia di Indra: il mondo intero verrà nuovamente a prostrarsi ai piedi di Laputa“).
Laputa – Il castello nel cielo (天空の城ラピュタ Tenkū no shiro Rapyuta) non è solo il primo film anime dello Studio Ghibli, ma è anche il primo manifesto di quelli che sono i temi cari ad Hayao Miyazaki e che è possibile trovare un po’ in tutti i suoi film: l’antimilitarismo, il pacifismo e il rifiuto della guerra da parte di una generazione che ha conosciuto la distruzione del conflitto mondiale e le sue conseguenze (tema che raggiungerà le sue vette estreme in Si Alza il Vento); l’accettazione della sconfitta in grado di costruire un’autocritica di se stessi per migliorarsi; l’importanza della preservazione dell’ambiente e il contatto uomo-natura (che diventerà tematica centrale in Principessa Mononoke e in Ponyo sulla scogliera); il tentativo di riportare la tecnologia alla sua purezza originaria per cui deve segnare un progresso del genere umano e non la sua distruzione (emblematico lo scambio di fiori tra Sheeta e il gigantesco automa di Laputa, che fa rivivere la scena di “Frankenstein” di Mary Shelley); la contrarietà nei confronti delle istituzioni corrotte ed erose di potere e l’aspirazione a costruire un mondo nuovo a partire dall’umanità stessa (tematica ripresa in Porco Rosso); la crescita e la formazione attraverso l’amicizia (come in Kiki – Consegne a Domicilio e in Il mio vicino Totoro). Il castello nel cielo, inoltre, costruisce, per la prima volta in un film anime giapponese, un grande personaggio femminile, riprendendo parzialmente la determinazione della giovane Nausicaa, protagonista del precedente film d’animazione Nausicaa nella valle del vento, ma liberandolo da alcune caratteristiche stereotipate e rendendolo indipendente e unico a partire anche dal vasto spettro emotivo dei suoi sentimenti. Tutto ciò, nel non troppo lontano 1986, cominciò a sovvertire la cultura maschilista nipponica e a creare la galleria di grandi personaggi femminili che caratterizzano, solitamente, i lavori di Hayao Miyazaki, anche perché, per dirla con la piratessa Dola, “L’audacia è femmina“.
Ultima postilla sulla colonna sonora composta dal celebre musicista giapponese Joe Hisaishi, che fu, in ordine cronologico, la seconda collaborazione con Hayao Miyazaki e la prima con lo Studio Ghibli e che segnò un sodalizio tuttora vivo e presente (Hisaishi ha composto anche la colonna sonora dell’ultimo segreto film di Miyazaki, ma questa è un’altra storia, che speriamo segnerà l’inizio di tante altre storie).
Consigliato: a tutti gli amanti dello Studio Ghibli e agli amanti degli anime, perché è una pietra miliare della storia dell’animazione, considerata all’epoca il terzo miglior film d’animazione dopo Neon Genesis Evangelion e Nausicaa nella valle del vento; a tutti coloro che amano la narrativa fantastica e di fantascienza e divoravano da bambini i romanzi d’avventura di Jules Verne (e forse li divorano ancora); a chi crede che valga sempre la pena vedere un inno contro la guerra.
Captain-in-Freckles
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