“Qualcuno ha qualcosa in contrario che io sia uno shogun donna?”
Generalmente, tendo a divorare la lettura dei manga e la visione degli anime, ma ci sono pochi casi in cui questa voracità mi accade quando si tratta di una narrazione storica, tematica che preferisco centellinarmi a rilento, magari ricorrendo a mie ricerche personali per inquadrare per bene il contesto. Ooku – Le stanze proibite non mi ha dato il tempo, trasportandomi con garbo e prepotenza, nello stesso momento, in un’ucronia storica, una rilettura dell’epoca dello shogunato, che mi ha portato a parecchie riflessioni attuali, perché, nonostante l’ambientazione nel Giappone feudale, la sua storia può essere veramente accostata a quella di “Il diario di un’ancella“, il famoso romanzo di Margaret Atwood che ha ispirato anche una serie televisiva. Come nel libro citato, anche la narrazione di Ooku segue solennità rituali e note stridenti, che confliggono tra loro e incantano al tempo stesso, con la fissità di vesti che diventano maschere e di generi che diventano prigioni. Solo che, diversamente dalle ancelle costrette a concepire in una società dispotica e maschilista, in questo anime/manga giapponese accade un’inversione dei ruoli (o, perlomeno, dei ruoli affibbiati solitamente dalla tradizione, ci tengo a precisare), ovvero sono protagonisti di questa sfasatura temporale e narrativa uomini costretti a servire come concubini o come banche del seme in una società dominata da un matriarcato. Eppure, la cosa strana è che, nonostante tutto, malgrado qualsiasi predominio e/o autorevolezza imposta dal genere femminile, domina sempre un latente e celato maschilismo, che cova alla radice, sotto strati di noiosa inattività e colorato belletto.
Come introdotto, la materia non è assolutamente di facile trattazione e necessita di una breve premessa. L’anime/manga può essere classificato sia tra le narrazioni di genere storico che tra i cosiddetti josei, ovvero manga destinati prevalentemente ad un pubblico femminile adulto, contenente rappresentazioni più realistiche e argomenti più espliciti rispetto al classico shojo per ragazze. Per questo motivo, i josei possono affrontare tranquillamente tematiche storiche, prendendo per assodato una conoscenza di base solida, ma anche tematiche politiche, sociologiche ed etiche e, infine, possono avere contenuti sessuali, senza troppe censure, sfiorando, talvolta, il confine dello yaoi.
Ooku parte dal presupposto che, ad un certo punto storico del Giappone feudale (coincidente con la fine del periodo Azuchi-Momoyama e l’inizio del periodo Edo), una strana pestilenza (definita “vaiolo dalla faccia rossa”) decimò in modo considerevole la popolazione maschile, l’unica ad essere soggetta alla malattia. Con il tempo, ciò ridefinì completamente la società giapponese: visto che gli uomini erano diventati un quarto della popolazione femminile, tutte le mansioni e i lavori venivano svolti dalle donne, ritenute di costituzione più robusta, mentre la fragilità maschile veniva preservata per mantenere la perpetuazione della specie. L’istituto della famiglia decadde completamente e le donne si abituarono ad avere figli da sole, magari pagando il seme dei pochi uomini rimasti. Del resto, solo le donne potevano essere legittimate ad ereditare e a succedere alla diverse cariche anche ereditarie, divenendo feudatari, baroni e, infine, shogun, instaurando, di fatto, un matriarcato, seppur lasciando l’apparenza dei nomi maschili per ereditare. Mentre poche donne ricche potevano permettersi l’esclusiva di un marito (acquistato a peso d’oro) e la maggior parte delle donne ricorreva semplicemente a fecondatori e amanti occasionali, talvolta pescati dal quartiere dei piaceri di Yoshiwara, dove gli uomini usavano mettere in offerta le proprie prestazioni, solo la shogun poteva concedersi il lusso di mantenere un ooku (大奥, lett. “grandi interni” o, meglio, “le stanze proibite”), ovvero un harem di soli concubini uomini, a cui era vietato uscire dalle mura del palazzo di Edo ed avere relazioni con altre donne, in quanto proprietà personale della shogun.
Qui inizia la narrazione dell’anime, che può essere divisa per comodità in due parti: la prima, corrispondente al solo primo episodio, di fatto della durata di un film e narrante la storia dell’ooku all’epoca dell’ottavo shogun (bene o male, durante il XIX secolo), quando il matriarcato era già radicato da tempo; la seconda, corrispondente agli episodi dal 2 al 10 e costruito come una sorta di flashback (o, meglio, di lettura di vecchi registri), narranti come è stato creato lo shogunato femminile e l’ooku di concubini.
Nella prima parte, il protagonista assoluto è Mizuno, un giovane nemmeno ventenne, che decide di impiegarsi nell’ooku dello shogun, a causa dell’impossibilità di sposare la donna che ama. Quello che sembra un semplice lavoro, forse quasi monastico, diventa presto un incubo per Mizuno, costretto ad iniziare dalle posizioni più basse, ovvero a fare le pulizie, imprigionato in un mondo di soli uomini da cui non è possibile evadere e soggetto a bassezze e vessazioni da parte degli invidiosi compagni di harem. Una notte, per sfuggire ad una violenza sessuale di gruppo proprio da parte di altri concubini, sfodera la spada e tutta la sua competenza da mancato samurai per minacciare i suoi assalitori. Questo fatto lo mette particolarmente in luce e lo fa scegliere dal gran ciambellano dell’ooku per iniziare una scalata che lo porta nella casta dei guerrieri, prima, e, in quella dei gentiluomini di corte, dopo, con maggiore possibilità di essere scelto come amante dalla shogun. Nel frattempo, però, l’attuale shogun, Tokugawa Ietsugu, una bambina di soli sette anni, muore senza eredi e le subentra nella carica una lontana parente, Tokugawa Yoshimune, donna pratica e priva di fronzoli, che nota come l’ooku sia solo una spesa morta e un fardello, in quanto priva il mondo esterno di uomini forza lavoro e di ipotetici padri, e come, di fatto, all’interno dell’ooku si sia creata una vera e propria élite istituzionale dominante la politica del paese. Un’élite nelle mani di pochi scelti e fidati concubini, capeggiati proprio dal ciambellano di corte, che, di fatto, gestiscono i veri poteri politici e gli equilibri di corte e mantengono lo stallo tra i feudatari e la stasi dalle guerre fratricide. Al contempo, la shogun nota come il matriarcato sia, in realtà, un’entità fatiscente, legittimata dall’esigenza dovuta alla riduzione della popolazione maschile e da un carattere di transitorietà, tanto che ogni donna erede è costretta a cambiare il proprio nome con un corrispondente maschile, e mai, quindi, da una volontà di eguagliare le posizioni dei generi e la loro capacità anche giuridica. L’illusione del potere è data anche dal possesso dei concubini, che toglie materialmente uomini dal riequilibrio dei generi e stabilizza lo status quo, retto da questa piccola e nascosta oligarchia. Inaugurando una politica quasi di austerity e tagliando le cariche a chi non è degno della sua fiducia (compreso consigliere di corte corrotte e dispendiose e concubini giovani e di bell’aspetto, inviati nel mondo a procreare), la shogun entra in possesso dei vecchi registri per capire come si sia arrivati a questo punto.
Qui, inizia la seconda parte, che fa un salto indietro nel tempo al XVII secolo, ovvero all’epoca dello scoppio della pestilenza che, tra le illustri vittime, uccide anche il terzo shogun, Tokugawa Iemitsu. Per non fare avvertire alcun vuoto di potere e mantenere il dominio della famiglia dei Tokugawa, la sua nutrice Kasuga (personaggio, tra l’altro, storicamente esistito, colei che ha di fatto instaurato lo shogunato dei Tokugawa e ha costruito l’ooku dello shogun, donna controversa, tradizionalista e machiavellica, balia, ma soprattutto politica e statista, amata e odiata al contempo in tutti i libri di storia) lo sostituisce con la figlia illegittima Chie, a cui impone il nome paterno e vesti maschili. La ragazza cresce, perseverando l’illusione che le ha imposto la nutrice, per cui non può ricevere nessuno direttamente, ma solo dietro un paravento (o facendosi sostituire da un sosia) e finge di essere suo padre. Nella prospettiva di dare una degna discendenza maschile alla sua shogun sostituta, Kasuga inizia a pescare diversi uomini celibi, perlopiù ronin, ovvero guerrieri samurai senza possedimenti e senza signore feudale a cui prestare fedeltà, e a chiuderli nel suo ooku in qualità di ipotetici padri del futuro shogun (di fatto, sono i primi concubini che daranno il via alla tradizione consolidata).
Tra di essi, appare, controvoglia, il giovane Arikoto, uno dei personaggi maschili più belli e meglio costruiti in generale negli anime/manga. Arikoto è erede di una famiglia nobile, ma, sin dalla più tenera età, avvertendo un afflato spirituale e un’esigenza di aiutare il prossimo, ha convertito la sua vita a diventare monaco buddista. In qualità di priore del monastero, si reca per un’ambasceria dallo shogun e qui viene notato da Kasuga per i suoi lineamenti aggraziati, quasi femminei, l’eleganza, la gentilezza e l’enorme cultura, tutte caratteristiche che avrebbero potuto colpire una shogun poco più che adolescente e ribelle. Di fatto, Arikoto viene minacciato e costretto a rimanere nell’ooku (pena la morte delle persone a lui vicino) e ad abiurare i propri voti (o, come afferma lui stesso, a rigettare la sua “tonsura”) e, così, scopre il grande inganno della shogun sostituta. Arikoto, però, ha la capacità della comprensione e del perdono: nonostante le umiliazioni a cui è costretto, accetta tutte le sofferenze, persino la più grande, quella di non portare avanti la propria missione come religioso, e decide che la sua vera vocazione sarà salvare anche solo una vita, quella della giovane shogun, apparentemente arcigna e selvaggia, incastrata in un ruolo maschile e in un nome che odia, ma, nella realtà, sofferente e percorsa da una continua tristezza. Avviene così, a lenti passi, con parole di umanità che la shogun non aveva mai sentito, come un abbraccio per consolarla di un aborto subito in passato e il tempo speso per ascoltarla parlare o per sentire insieme il manto soffice e caldo di un gattino, che Arikoto e Iemitsu si avvicinano e si scelgono, innamorandosi l’uno dell’altra con un sentimento così forte e omnicomprensivo da superare il giogo della vita nell’ooku. Iemitsu accetta il suo ruolo e, lentamente, si priva degli abiti maschili che le hanno imposto per esprimere se stessa in vesti femminili e concedersi il lusso di cambiare opinione. Arikoto accetta di accompagnarla, stando un passo dietro di lei, eppure sempre al suo fianco, in una vita che sembra scorrere sempre identica giorno dopo giorno, nella fissità di una prigione dorata, conscio che la sua esistenza vale per supportare Iemitsu. Ma non è la sola cosa che Arikoto è costretto ad accettare: non essendo in grado di dare figli a Iemitsu, accetta che vengano affiancati alla sua amata altri concubini e questi ultimi siano i padri dei suoi figli, così come accetta di crescere i bambini come se fossero figli propri e dimostra tutta la sua compassione e la sua misericordia nel prestare soccorso ai disagi e alle malattie altrui, rischiando anche la propria vita. Ed è quando chiede a Iemitsu di essere dispensato dai suoi doveri coniugali, ma di rimanerle accanto come confidente e come consigliere, che si nota quanto sia salito agli occhi di Iemitsu nel suo continuo amore e nel suo spirito di abnegazione e come quest’ultima non possa sostituire nessuno ad Arikoto, che considererà sempre il suo unico amore.
Storicamente, è vero che il Periodo degli Stati Belligeranti si è concluso con la fortificazione dello shogunato e della figura dello shogun, carica di fatto gestita dalla famiglia Tokugawa, che viveva nella fortezza di Edo, l’antica Tokyo, abbastanza vicino alla capitale Kyoto per mantenere i contatti con la corte imperiale e abbastanza lontano da gestire la sua influenza per riorganizzare i samurai. Così, come è vero che il terzo shogun Tokugawa Iemitsu riunì a sé i ronin privi di signoria per sedare le lotte per il potere tra i feudatari, coadiuvato in tutto ciò dalla nobile Kasuga, figlia di un nobile decaduto, che aveva divorziato per fare da nutrice al futuro shogun o, meglio, per avere la possibilità di formare la sua educazione militare e politica. Altra verità è proprio la creazione dell’ooku, le cosiddette stanze proibite, un harem creato dalla nobile Kasuga come proprietà esclusiva dello shogun e che, secondo la leggenda, contava anche 3000 concubine. Tendenzialmente, se, come ci dimostra l’anime, gli shogun e i samurai donne avessero cambiato il proprio nome in versione maschile e i concubini uomini avessero assunto nomi femminili, non c’è nulla di diverso da quello che la storia del Giappone feudale ci ha trasmesso. Ho trovato incredibile quest’attenzione al dettaglio e questa trasposizione fedele, con un espediente tecnico, peraltro confermato all’interno della narrazione dell’anime, che doveva servire a ingannare contemporanei stranieri e posteri giapponesi.
E, allora, che cosa può sembrare così stridente all’interno di quest’anime, se, di fatto, un ooku di concubine è realmente esistito? Forse che scardinare i generi come sono stati adoperati nella storia può scuotere la mente del lettore/spettatore? Nessuno rimane allibito quando la storia ci trasmette grandi figure maschili, guerrieri e regnanti o anche studiosi, con una o più spose e magari un nutrito gruppo di concubine. Tutti quanti, quasi in automatico, pensiamo che è normale, che la storia è andata così e che la strada per l’emancipazione femminile è stata lunga. Ma come mai restiamo impressionati se vediamo la storia di una donna da sola al potere, circondata da concubini uomini? Perché viene questo senso di fastidio, come forgiato nei secoli da un’imposizione quasi automatica di ruoli, di cui non riusciamo a liberarci nemmeno quando ci sforziamo? Non è facile liberarsi da tutti questi preconcetti che la nostra mente si è formata anche a livello ancestrale, quasi idola fori baconiani, perché, lo ammetto, pur con tutto il femminismo di cui mi sono sempre vantata, persino io sono rimasta quasi rintonata da note stridule, come camminare a piedi nudi sui vetri. E tutto ciò mi ha mosso la mia riflessione su uno scardinamento dei ruoli, per cui esiste sempre continuamente una severa e latente opposizione.
Tutt’al più, nell’anime/manga, viene inserita l’esigenza di mantenere la riproduzione e, quindi, la specie, nell’offerta di seme per le donne e la cosa quasi scandalizza, mentre è sempre sembrato normale che una donna garantisse la discendenza ad un uomo, come se fosse obbligata a diventare una macchina di riproduzione, e nessuno si rende conto che, in entrambi i casi, alla base sussiste sempre una strumentalizzazione del corpo femminile. Se la storia ci ha trasmesso la figura di consorti e concubine, in cui l’amore veniva sostituito dalla riconoscenza di diventare madri di futuri sovrani o personaggi importati per gli eventi storici perché uomini, anche la visione dell’anime ci restituisce la figura di una donna (la shogun) e di più donne costrette a mantenere e a perpetrare la specie e, pertanto, private di una vita e della possibilità di avere un amore per adempiere al ruolo di essere madri. Come riflette la shogun Tokugawa Iemitsu: “Non ho fatto nulla di diverso da quello che hanno fatto le altre donne che sono venute prima di me, costrette a sposarsi per dare una discendenza ai sovrani; perché, alla fine, è sempre la donna a soffrire“.
Non solo: come ho anticipato all’inizio di questo articolo, l’harem maschile, col tempo, si trasforma in una casta, nata a cerchi concentrici e gerarchizzati intorno alla figura di una shogun a cui rimane solo un potere formale. I fatti che aprono la narrazione dell’anime, ovvero l’arrivo del giovane concubino Mizuno, mostrano un ooku settario, dominato da alcuni uomini che hanno imposto una logica di gradi e di gruppi non solo per decidere chi può avvicinarsi alla shogun come futuro consorte e padre dei suoi figli, ma, di fatto, anche chi può entrare nella sua sfera di influenza. In questo mondo dove dominano le donne, sono le donne stesse ad autoannullarsi, vietando alle altre donne l’ingresso nell’ooku, e a depositare il potere nelle mani di pochi e selezionati uomini, separati dal resto della società maschile. Di fatto, la gestione che si va a creare è frutto di un doppio squilibrio: quello iniziale dell’inversione dei ruoli tradizionali e quello di eliminare la disponibilità maschile esterna e la presenza femminile interna. Ciò non fa altro che radicalizzare il potere di alcuni uomini per svuotare quello delle donne, seppure conquistato con nomi e panni maschili e in nome di un’emergenza “sanitaria”, trasformando l’ucronia di Ooku in un autoritarismo oligarchico, ancora più arcigno rispetto a quello tramandatoci dalla storia.
Ché, poi, per quale motivo una donna che raggiunge il potere debba fingersi un uomo è uno degli interrogativi che rimangono ancora nella società odierna, ogni volta che una donna si priva delle proprie caratteristiche per spersonalizzarsi in una non-identità, quasi giustificando il proprio potere in nome di una necessità momentanea, come se fosse una sostituta di una entità maschile assente e addirittura non esistente.
L’autrice di Ooku, Fumi Yoshinaga, è una delle più quotate e apprezzate mangaka del genere josei, premiata proprio per Ooku con numerosi riconoscimenti e ben valorizzata dalla critica sia per le sue opere seriali che per i one-shot (manga consistenti in un unico tankobon), sia, infine, per le sue incursioni anche nel genere yaoi/BL. La sua opera è considerata a tutti gli effetti un esempio di sociologia del genere, che, lentamente, sta scardinando e sovvertendo i canoni dei manga, aprendo una seria riflessione sul femminismo.
Postilla: esistono anche un film del 2010 (noto anche come The Lady Shogun and Her Men) e un drama del 2012, entrambi diretti da Fuminori Kaneko, entrambi dei gioiellini da recuperare.
Consigliato: sia agli amanti di anime/manga, che a chi ha poca dimestichezza con il genere, ma che, tuttavia, nutre una profonda passione per la storia, la riflessione e lo studio della società e ha voglia di vedere uno scenario ucronico mai affrontato, che è l’altra faccia della medaglia di forti storie femministe già raccontate.
Captain-in-Freckles

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