“Non si tratta solo di un ragazzo. Sono pronta ad iniziare a sperimentare nuove cose. Voglio un’avventura tutta mia”.
Lo ammetto, non so ancora perché ho deciso, durante un fine settimana di fine primavera, di frustrarmi da sola con questa serie. E ammetto pure che non volevo scrivere questa recensione, perché, quando incappi in uno scivolone simile, non vuoi nemmeno perdere tempo per buttare giù qualche riga in merito. Ma, alla fine, complici le altre socie del blog, ho deciso di intraprendere quest’avventura con una rubrica dal titolo “Ma anche no!” (suggerito da Lor), per cui questa che segue non sarà una vera e propria recensione, ma una sorta di messa in guardia, come Gandalf che urla al resto della compagnia dell’anello “Fuggite, sciocchi!“. E, se non volete fuggire, ma siete in preda alla mia stessa malsana curiosità, allora ecco di seguito qualche avvertimento.
Partiamo dal presupposto che no, non è un vero K-drama, ma un’operazione furba che attinge dai cliché dell’universo dramoso coreano (soprattutto da drama in stile Boys Over Flowers e The Heirs) e da certe serie americane teen e young adult (alla Sex Education), con una spruzzata di etichetta politically correct alla Netflix. Tentiamo anche di chiarire il concetto che ci sono una serie di errori cronologici (perché, se la madre di Kitty aveva 16 anni nel 1993 e non aveva ancora conosciuto il futuro marito, non si spiegano come hanno fatto le figlie maggiori a nascere nel 1990), burocratico-temporali (perché l’anno scolastico in Corea inizia a marzo e non a settembre), meteorologico-naturali (perché la fioritura dei ciliegi non dura tutto l’anno, Chuseok è in autunno e in inverno fa freddo a Seoul, spesso nevica pure). E, infine, sì, la serie è made in USA e lo si nota da una serie di castronerie sparse e poco deferenti nei confronti della cultura altrui.
Chiariti i primi concetti, arriviamo a recensire velocemente questo pastiche di Netflix, che è come quelle pagine che tentano di sfruttare il fenomeno coreano del momento per banalizzarlo. Kitty Song Covey (Anna Cathcart), ragazza americana con madre di origini coreane, vola in una scuola esclusiva di Seoul per il suo terzo anno di liceo, la stessa scuola frequentata dalla madre da adolescente e dal suo fidanzato epistolare Dae (Choi Min-young, il fratellino minore del protagonista di 25 21), conosciuto anni prima durante una vacanza in famiglia. Ovviamente, Kitty non si preoccupa di imparare in modo quanto meno decente la lingua coreana, né di seguire il programma delle scuole coreane, convinta che la sua preparazione da high school americana sia perfettamente a norma anche per i competitivi licei asiatici, andando inevitabilmente male (e, con ogni probabilità, questa è la parte più veritiera e razionale di tutto il drama). Però, il suo grande amore è incastrato in un finto fidanzamento con Yuri (Gia Kim), figlia di un miliardario chabeol a capo di una catena di hotel e della preside della scuola Ji-na (interpretata da Kim Yun-jin, l’ispettrice di Money Heist Korea che è stata anche uno dei volti di Lost), anche ex migliore amica della madre e, probabilmente, detentrice di un terribile segreto. E Kitty si perde a rincorrere il suo amore e un po’ anche a rincorrere se stessa e i ricordi di sua madre. Praticamente, in sei mesi di scuola combina più di quanto una persona possa fare in 30 anni.
Ma la domanda è: chi sarà, alla fine, il suo vero amore? Sì, perché dal grande amore per Dae, passerà presto alla ricerca di un ragazzo qualsiasi per ricevere, durante una serata inaspettatamente alcoolica, il suo primo vero bacio, per tornare, poi, di nuovo a struggersi per Dae, ma a litigare con un botta-e-risposta da flirt amoroso con il suo migliore amico Min-ho (Lee Sang-heon), per tornare, nuovamente dal suo grande amore Dae, ma iniziando a percepire una certa attrazione per la terribile e affascinante Yuri… Insomma, gira la testa vorticosamente in questo ballo amoroso di Kitty e ci si confonde presto (a lei piace lui, che sta con lei, che piace all’altra lei, che piace all’altro lui). Sembra la canzone Mon Amour di Annalisa che ci sta tormentando in questo inizio d’estate. E, alla fine, non si capisce proprio nulla.
La serie è carina e scorre in modo gradevole, se non fosse che è un po’ too much e ha la pretesa di essere un k-drama, quando, in realtà, è quanto di più lontano possibile da quella soave lentezza e quel pudore caloroso dei sentimenti, che ci hanno insegnato le serie asiatiche. Inoltre, pretende di rileggere una cultura da cui è piuttosto lontana, perché non basta appendere un lucchetto a Seoul alla Namsan Tower e indossare maglie abbinate di coppia (tutte cose che chiaramente i personaggi di questo drama fanno per far capire quanto sono innamorati), né serve ascoltare a tutto volume le Blackpink mentre si esce dalle boutique più costose, dopo una sessione di shopping sfrenato e rosa shocking, per comprendere una cultura e una società, che, onestamente, sono state prese un po’ sotto gamba. In definitiva, è un passatempo se non si ha voglia di guardare qualcosa che non faccia riflettere troppo, giusto per spegnere il cervello per un po’ (come è capitato a me, schiacciata in un periodo sofferente e gravoso dal punto di vista lavorativo ed emotivo) e si ha una giornata di noia e di tedio da superare, anche perché permette di beccare una OST infarcita di K-Pop a caso. Però, non è un tributo ai K-Drama, come si credeva all’inizio, ma solo una rivisitazione, di qualità piuttosto scadente e poco brillante, di cose già viste e riviste. Per cui, se si è amanti del genere, meglio guardare Dramaworld come tributo al mondo dramoso che spezza giustamente la continuità seriale oppure tornare ai classici drama.
Per me è una serie da sufficienza stentata e guadagnata solo per simpatia o per incoraggiamento ad attori giovani e ancora poco noti, ma è anche una serie sconsigliabile, una perdita di tempo con contenuti davvero di poca caratura. Tranne Min-ho: ebbene, quel ragazzo prende la sufficienza piena e anche qualcosa di più (con un voto che sarebbe stato più alto, se solo avessero avuto la decenza di scrivergli più parti), perché è l’unico personaggio più autenticamente dramoso nell’incarnare la sua Red Flag, antipatico, scostante, scorbutico e narcisista quanto basta, lo si adora appena entra in scena. Per cui, visto che Netflix ha deciso di piagarci con una seconda stagione, mi auguro che la seconda stagione riparta da lui. O, meglio, che sia direttamente lui. Per me potrebbero anche chiamarla XO, Minho.
Piccola postilla: la serie TV si basa su un personaggio secondario della serie di libri di To All The Boys, scritti da Jenny Han e trasposti in film da Netflix (con la trilogia di Tutte le volte che ho scritto Ti Amo, P.S. Ti amo ancora e Tua per sempre). Nel particolare, Kitty è la sorella minore della protagonista, Lara Jean Covey, interpretata da Lana Condor. Però, la serie spin-off non è uscita dalla penna e dall’inventiva di Jenny Han, ma è solo frutto del marketing di Netflix.
Altra piccola postilla: ad un certo punto, in un cameo d’eccezione compare Ok Taec-yeon (il super cattivo di Vincenzo), nel ruolo di un noto attore e idol, proprietario di una riserva presso cui la scuola di Kitty va in gita. Ecco, forse questi cinque minuti potrebbero valere la visione (ma, se amate già quest’attore, non guardatelo doppiato)
Consigliato: NO, o, in minima e limitata parte, con le dovute contromisure già introdotte sopra, e, comunque, mai consigliato se non siete pratici del mondo dramoso asiatico, se avete visto poco o nulla di drama provenienti dall’Estremo Oriente e siete curiosi di approcciarvi al genere, perché non è il metodo giusto, ma solo una visione che potrebbe destabilizzarvi e fornirvi un’idea diversa; se, invece, siete già a un livello PRO e volete prendervi una pausa, se non altro per riderci sopra, allora potete procedere alla visione senza problema. Poi, però, mi dite quante incongruenze e stonature avete trovato all’interno, perché pare che aumentino ad ogni visione.
Captain-in-Freckles

2 pensieri riguardo “XO, Kitty (ovvero ma perché ho guardato questa serie?)”