Am I your mark? Are you tailing me now?
Siamo negli anni ’80, in una Corea ancora più divisa di quanto non si possa immaginare, ai più ignota nei suoi meandri di violenza politica e corruzione, celata da un perbenismo tipico da Guerra Fredda. Siamo in mezzo ad un buio labirinto di agenti e di spie, dove è difficile capire chi siano davvero i buoni e chi i cattivi, tanto i confini sono sfumati, ma è difficile capire anche da che parte si cela la verità, vittima di un continuo gioco di strategia e dissimulazione, una linea sottile che i personaggi attraversano più volte, fino a camminare sottilmente come su un filo di lana. Difficile riassumere in poche righe il film thriller Hunt, opera prima come regista di Lee Jung-jae (il noto e amato protagonista di Squid Game e di Chief of Staff), che prende in mano una storia di spionaggio e di azione, con fatti storici veri, per ergere come su un palcoscenico i suoi due (o anche tre) personaggi, che recitano come in una tragedia greca, soffrendo per sé e colpendosi a vicenda in una continua espiazione dal senso di colpa che li affligge, una perenne punizione per atti da loro commessi in passato. Infatti, quella che sembra, a prima vista, una lotta tra spie e che riecheggia i toni di John Le Carrè (primo su tutti, il suo famoso romanzo La Talpa), con una partita a scacchi in cui lo stesso spettatore non sa che posizione prendere e a chi credere, verso metà narrazione si spezza per diventare un dramma più interiore, corredato dalle angosce passate, dalla certezza di aver commesso il male e dalla volontà (talvolta, distorta) di ripararne i suoi effetti. Ed è proprio in questa destabilizzazione che risiede la grandezza di questo film, giustamente premiato dal pubblico e da numerosi premi in patria, anche perché la sofferenza dei due agenti protagonisti è un comune sentire che affligge il popolo sudcoreano degli anni della dittatura. Ma, prima di proseguire con la recensione, è necessario un piccolo antefatto storico.
Nel 1979, dopo l’assassinio del Presidente sudcoreano Park Chung-hee, che aveva retto la Casa Blu in modo autoritario per ben 18 anni, si verificò un vuoto di potere, che portò ad una serie di guerre interne tra politici, militari e servizi segreti deviati. Mentre la popolazione credeva in un ritorno delle libertà e della democrazia, nel dicembre dello stesso anno, prese il potere con un colpo di stato il generale Chun Doo-hwan. L’anno dopo, nel 1980, in seguito al regime oppressivo e violento a cui la popolazione era soggetta continuamente dopo il colpo di stato, la città di Gwangju insorse: il 18 maggio, donne, uomini, bambini e tantissimi giovani (perlopiù studenti universitari, riuniti della cosiddetta Gwangju Uprising, un movimento di richiesta dei diritti e delle libertà) scesero in piazza per manifestare contro il governo e, dopo una strenua resistenza durata fino al 27 maggio, subirono una durissima repressione da parte delle truppe militari inviate dal governo (fatto narrato con dovizia dal drama Youth of May). Di fatto, Gwangju fu messa sotto assedio militare con innumerevoli vittime e numerosi arresti e deportazioni (le stime ufficiali dell’epoca provenienti dal governo sudcoreano registrarono un numero di quasi 200 morti, mentre la stampa estera parlò di circa 2000 persone trucidate dall’esercito e dalla polizia, senza contare coloro che morirono per le torture e i maltrattamenti subiti in carcere). Dopo il massacro di Gwangju e dopo l’elezione di Chun Doo-hwan che ne legittimava la presidenza (settembre 1980), la stretta del governo divenne ancora più ferrea: gli oppositori politici venivano spesso accusati di essere comunisti o in combutta con il regime della Corea del Nord per giustificare arresti contrari a qualsiasi diritto e trattamenti disumani. In un clima di crescente odio interno, anche i rapporti con il Nord divennero sempre più arcigni, portando a diverse introduzioni (reciproche) di spie all’interno del comparto istituzionale. Nel 1983, la guerra tra spie sudcoreane e nordcoreane raggiunse l’apice, quando, prima, il pilota nordcoreano Lee Wong-pyung, con una virata impensabile, sviò i controlli, raggiunse la Corea del Sud e defezionò dalla patria per consegnare spontaneamente informazioni ai sudcoreani e, infine, quando agenti nordcoreani, con ipotetica collusione di agenti sudcoreani, attentarono alla vita del Presidente sudcoreano in visita a Rangoon (nell’attentato, persero la vita 21 persone e ne furono ferite 46, mentre il Presidente rimase illeso).
La narrazione inizia proprio qui, nel 1983, quando l’agente capo dell’unità estera dei servizi di sicurezza Park Pyong-ho (interpretato proprio da Lee Jung-jae) e l’agente capo dell’unità interna dei servizi di sicurezza Kim Jung-do (interpretato da Jung Woo-sung, attore di action drammatici come Steel Rain e Illang) vengono avvertiti dalla CIA di un probabile attentato ai danni del Presidente sudcoreano a Washington D.C., probabilmente organizzato dalla Corea del Nord con la complicità di una spia interna. Nonostante i due siano costretti a collaborare per scongiurare il verificarsi dell’evento e per trovare la talpa che compromette la stabilità del paese (denominata Donglim, così come John Le Carré denomina la sua talpa Karla), non scorre buon sangue né tra le due unità, né tra i due agenti. Mentre Park Pyong-ho è cinico, nervoso e irascibile e agisce con l’arma del ricatto, scovando tutte le carte con cui può tenere in pugno i politici più influenti (ancora una volta Lee Jung-jae si conferma “la vipera” della politica), Kim Jung-do è un integerrimo e freddo difensore dell’autorità e del potere e non si fa problemi a usare la tortura sulle persone che deve interrogare. Per questo motivo, le loro indagini sembrano procedere su due binari separati e confliggenti: l’analisi e la raccolta di foto e documenti di Park Pyong-ho, l’escussione di testi (non volontari) per avere confessioni di Kim Jung-do. Mentre il primo non approva i metodi del secondo, ricordando come in passato non abbia esitato ad utilizzarli anche su di lui e sugli agenti della sua unità (sospettati di tramare contro il governo), il secondo è convinto che la fuga di notizie provenga proprio dal primo, che sospetta di essere in combutta con i nordcoreani forse anche per le sue missioni passate con diversi informatori. Quella che doveva essere una pacata collaborazione, dunque, si trasforma nel tentativo di screditarsi a vicenda per annullare il proprio rivale dalle istituzioni. O, forse, per annullare e nascondere qualcosa di più profondo e personale.
Entrambi, infatti, celano dei segreti, che, a loro volta, celano delle colpe. Park Pyong-ho fa da tutore a Jo Yoo-jeong (interpretata da Go Youn-jung, la Naksu della seconda parte di Alchemy of Souls, anche vista in Sweet Home), una ragazza universitaria coinvolta dai movimenti giovanili studenteschi di opposizione al regime (gli stessi del Gwangju Uprising), con la quale ha un rapporto paterno difficile. Jo Yoo-jeong, infatti, è figlia di Cho Won-sik (cameo straordinario di Lee Sung-min, premio Baeksang per Reborn Rich e Misaeng), un suo ex informatore nordcoreano, della cui morte sul campo si sente responsabile e che tenta di espiare con la cura della figlia (e anche con il cambio di documenti per celarne la nazionalità). D’altro canto, Kim Jung-do non ha mai superato il trauma del massacro di Gwangju, a cui ha preso parte attivamente come militare, e, sentendosi responsabile di innumerevoli morti, si auto-punisce scendendo nel baratro della polizia politica, convinto che oramai è inutile qualsiasi redenzione e che l’unica via è l’abbruttimento morale (un po’ lo stesso ragionamento del protagonista di Peppermint Candy).
In un barlume di ragionevolezza, però, Kim Jung-do inizia a nutrire sentimenti critici nei confronti del governo che ha sempre servito e quasi idolatrato e, da persona priva di mezze misure e incapace di scendere a compromessi, passa nettamente dall’altra parte, mettendosi a capo di un gruppo segreto che mira a destabilizzare il regime e ad eliminare il Presidente. Mentre mantiene la sua maschera di freddezza e di risolutezza quasi militare nel portare avanti i propri doveri con lo Stato, inizia a prendere contatti all’estero per trovare sostegno e simpatia al suo piccolo gruppo di congiurati. Col tempo, però, è costretto a constatare l’indifferenza di tutti nei confronti della causa democratica sudcoreana, perché un regime autoritario era visto come la soluzione migliore per frenare l’avanzata comunista nella penisola (e in Asia). A quel punto, mentre matura la decisione suprema di sacrificarsi per la causa e per espiare le sue colpe, inizia a provare simpatia per Donglim, la famigerata talpa che passa informazioni segrete ai nordcoreani, e per i suoi tentativi di assassinare il Presidente.
Solo che – SPOILER (ma neanche più di tanto, perché lo si capisce già a metà film) – Donglim è anche il suo acerrimo nemico Park Pyong-ho. E, anch’egli, vive in un muro di sensi di colpa per il suo passato, per aver venduto diversi suoi compagni nordcoreani ai sudcoreani (e, viceversa, diversi agenti di squadra sudcoreani ai nordcoreani), per aver commesso crimini e atrocità nel tentativo di preservare la sua posizione e per aver costruito un castello di bugie, inaccessibile pure alla giovane Jo Yoo-jeong, l’unica famiglia che gli rimane, pur privo del coraggio di rivelarle il suo affetto paterno.
E, così, in questo inseguimento quasi titanico (che mi ha ricordato Heat – La Sfida), i due si incontrano e si scontrano, si rivelano e si alleano, ognuno per una finalità esterna diversa e per uno scopo interiore ancora più differente, salvo, poi, ritrovarsi nuovamente su due fronti opposti nel loro tentativo estremo di cercare l’assoluzione ai crimini: Park Pyong-ho, umiliato nella scoperta della propria umanità e nella difesa di valori e concetti universali come la vita umana, e Kim Jung-do, elevato nel fanatismo di una missione che reputa quasi divina per il raggiungimento di un fine supremo. L’uno, che ha vissuto una vita di eterno compromesso, si rifiuta di usare la violenza perché contraria alla dignità umana e alla libertà, nella speranza di un mondo migliore privo di ostilità. L’altro, che ha blindato per una vita le proprie emozioni e ha sempre rifiutato i compromessi, accoglie l’annullamento dei propri principi e accetta di venire a patti con l’idea di assassinio per liberare l’umanità. Entrambi sono convinti che solo un loro estremo ed ultimo atto sacrificale può portare ad un miglioramento generale, che diventa anche riscatto personale. Entrambi due volti diversi della stessa sofferenza, dell’auto-immolazione per il futuro, eppure ancora troppo legati dagli spettri del proprio passato per permettersi di andare avanti. Fino alla tragedia estrema, che si consuma – diversamente dalla storia reale – in Thailandia.
Hunt è un film di spionaggio e un dramma politico ed esistenziale come non ne vedevo da anni, coraggioso e poetico al tempo stesso, dove l’azione lascia spazio alle riflessioni personali, isolando talvolta il personaggio con il suo “pubblico”, e dove la mimica delle espressioni sottintende dei veri e propri monologhi interiori. In questo senso, mi sento di promuovere in toto questo primo esperimento registico di Lee Jung-jae (a cui imputo solo la colpa di non aver osato di più nella parte dell’attentato finale), che spero continui sulla buona strada. Vero che ci sono già tanti film, libri e drama che narrano il periodo dittatoriale sudcoreano e l’estremizzazione degli anni ’80 e che diverse storie si soffermano, magari anche solo con un accenno, al massacro di Gwangju, ma, diversamente da quello che ha scritto certa critica, credo che non sia mai abbastanza sottolineare in modo costante le brutture e le atrocità che può compiere un regime e che cosa vuol dire aspirare alla libertà. Ogni opera in grado di suscitare queste emozioni e queste riflessioni è un’opera valida di essere vista, analizzata e diffusa, perché, per citare Antigone, insegna “lo splendore della disobbedienza“: è pericoloso farlo, ma sarebbe peggio non farlo.
Consigliato perché è una storia spy-thriller con ritmo incalzante e che lascia col fiato sospeso fino all’ultimo minuto, perché indugia a riflettere sui valori di libertà e di dignità umana, ma anche su cosa significa il senso di colpa storico che hanno vissuto (e ho ragione di credere che vivano ancora) molti uomini, perché analizza un periodo storico che è ancora ignoto in Occidente e perché è recitato come un pezzo di teatro classico. E, se non bastasse questo, vi fornisco altri motivi in più. Accanto al prezioso cameo di Lee Sung-min, si trovano numerosi altri camei d’eccezione – tutti interpretati per pura amicizia nei confronti di Lee Jung-jae: il pilota disertore nordcoreano Lee, interpretato da Hwang Jung-min (il mefistofelico pastore Jeon di Narco-Saints); l’incarcerato e torturato imprenditore Choi, interpretato da Yoo Jae-myung (il cattivo di Itaewon Class, ma anche l’avvocato idealista di Vincenzo); il leale agente dei servizi segreti Jang, interpretato da Heo Sung-tae (il prigioniero ex malavitoso di Squid Game, ma anche il project manager della missione sulla luna di The Silent Sea), i tre agenti dell’unità di Tokyo, interpretati da Park Sung-woong (protagonista omnipresente nel mondo dramoso da Snowdrop, a The Smile Has Left Your Eyes, a Rugal, a Man To Man), Jo Woo-jin (il caratterista d’eccezione ritrovato in Goblin, Narco-Saints, ma anche Happiness e Mr. Sunshine), Kim Nam-gil (il demone ammazzademoni di Island e il prete action di The Fiery Priest), e Ju Ji-hoon (il superprotagonista di Jirisan, Kingdom e Hyena). Direi che Lee Jung-jae ha un’ottima scelta di amici!
Captain-in-Freckles

4 pensieri riguardo “Hunt – Il senso di colpa, il tradimento e la redenzione”