Connect (ovvero un uomo e il suo occhio)

“Forse qualche volta esistono delle cose buone in questo modo infernale”

Talvolta, ci capita di svegliarci e di trovarci in un incubo. Capita di notte, quando tutto lo stress accumulato durante la giornata si sfoga in un immaginario distruttivo di frustrazione; capita dopo un periodo brutto, quando non riusciamo a trovare mai una vera luce che ci illumini il cammino; capita sempre, quando ci sentiamo soli, incompresi, come estranei e alieni al mondo intorno, da cui fuggiamo perché non percepiamo alcuna empatia. Ci sembra di essere accecati, come a vagare di notte in un quadro di Füssli, e non riusciamo volontariamente a trovare una strada, fino a quando, ad un certo punto, non decidiamo di uscire dalle nostre tenebre che ci oscurano la mente e di riprenderci la luce, ridiventando di nuovo noi stessi, composti in ogni nostro più piccolo elemento, con gli occhi aperti per affrontare il mondo. E, allora, diversità o meno, senso di alienazione o non riconoscimento con l’umanità, non ci nascondiamo più, perché sappiamo di poter fare la differenza, anche se in minime cose, e usciamo finalmente da un incubo che sembrava di essere eterno. Parafrasando dal titolo dell’autore francese Céline, il drama Connect è un eterno viaggio nel cuore della notte, sospeso a metà tra l’invincibilità e lo splendore umani e le tenebre di un incubo che ne raffigura il Male. E, tanto per mettere in chiaro il concetto sin da subito, questo non è un drama per tutti, per cui è necessario evitare la visione se non si ha un cuore fermo e saldo e una bassa impressionabilità all’orrore.

La storia narra la parabola di Ha Dong-soo (interpretato da un Jung Hae-in – D.P., Something in the Rain, Snowdrop, One Spring Night, A Piece of Your Mind -, che, più va avanti, più mi sembra Di Caprio in cerca di ruoli complessi per guadagnare un Oscar), dalle tenebre circostanti alla luce interiore. Ha Dong-soo è un ragazzo solitario, che vive ai margini della società, si muove nel buio e nella notte di una Seoul pietrificata e guadagna suonando la chitarra in piccoli video online, dove nasconde sempre il suo volto. Tutte queste precauzioni sono prese perché Dong-soo non è un comune essere umano: una qualche forma indefinita di evoluzione genetica ha trasformato il suo corpo, tanto da renderlo un Connect, ovvero un mutante le cui parti del corpo sono tutte “in connessione” fra loro. Per chiarire il concetto, se cade da un palazzo, le sue ossa si risistemano, permettendogli di guarire e non morire; se si brucia o si ferisce, la sua pelle si autorigenera; se gli viene tagliato un arto, questo genererà immediatamente tanti piccoli tentacoli per riattaccarsi al corpo (nel senso letterale della parola). Questa sua caratteristica lo qualifica come una rarità, un mostro per gli esseri umani, ma ipoteticamente una perfetta cavia da laboratorio per gli scienziati (cosa che mi ha ricordato molto il manga/anime Ajin) e merce preziosa per il contrabbando illegale di organi. “Ho sempre nascosto chi sono per tutta la vita, perché sono diverso“, afferma Dong-soo a Lee I-rang (Kim Hye-jun, la regina cattiva di Kingdom e la secondaria di Just Between Lovers), hacker misteriosa con i capelli per metà colorati, che interviene sempre per salvarlo dai pericoli e che, ogni volta, gli fornisce speranza: “Fortuna o destino, non deve finire così. Il futuro può essere cambiato“.

Le prime immagini del drama ci mostrano da subito come Dong-soo, braccato dai criminali della peggior specie, sia rapito dai trafficanti di organi, che gli espiantano un occhio. Forse le intenzioni erano ancora più gravi, viste le straordinarie capacità della vittima, ma Dong-soo si sveglia sul tavolo operatorio, si ricompone (letteralmente, con tanto di punti di sutura immaginari) e si libera dal medico contrabbandiere (con tanto di infarto di quest’ultimo); però, non riesce a trovare il suo occhio che è stato già “venduto” ad un altro soggetto. Nella ricerca del suo bulbo oculare e munito di benda, come i migliori pirati, Dong-soo inizia a ricevere una serie di messaggi telepatici dalle sinapsi dell’occhio che gli è stato rubato, cosa che gli permette di vedere cosa fa in contemporanea il detentore temporaneo dell’occhio. E, giacché, per un sillogismo automatico sulla criminalità, dai trafficanti di organi non si fanno mai operare persone normali, il nuovo detentore dell’occhio si rivela essere Oh Jin-seop (interpretato da Go Kyung-pyo, che era carino in Chicago Typewriter e Love Contract, ma adesso è diventato uno degli artefici dei miei incubi). Jin-seop, di giorno, è un impiegato modello e carrierista, perfettamente appagato da una relazione appassionata con una collega. Nel tempo libero, però, si trasforma in un serial killer, ma – badate bene – non un serial killer qualsiasi, bensì un fissato da brividi con la missione di trasformare l’omicidio in arte e ogni sua vittima in una scultura, con tanto di competenze scultoree e tassonomiche al tempo stesso. E, siccome questo talento non sembrava sufficiente, Jin-seop ha anche una passione per l’astrologia, l’esoterismo, la magia oscura e la simbologia, per cui, nel suo delirio di onnipotenza come nuova divinità demoniaca sulla terra, uccide, imbalsama, dipinge, assembla, crea una body art estrema con i corpi delle sue vittime e, poi, posta le foto online, dove un numero considerevole di seguaci ammira la sua perfezione artistica e la sua abilità, ma anche la simbologia che ogni opera nasconde. Mentre la polizia, capitanata dal detective Choi (Kim Roi-ha, uno degli attori feticcio di Bong Joon-ho, che lo ha diretto in Memorie di un assassino e Barking Dogs Never Bite), segue le tracce di questo psicopatico, ma sembra essere perennemente fuori strada, Dong-soo s’imbatte quasi casualmente in lui, seguendo i messaggi che arrivano dal suo occhio che chiede di tornare al suo proprietario originario.

Ovviamente non solo la ricerca è complessa perché i serial killer intelligenti sono bravi a far sparire le tracce e perché la polizia inizia a pensare che sia lui il vero colpevole, ma diventa ancora più ardua, quando Jin-seop si rende conto di lui e si qualifica come sua nemesi, un necessario alter ego complementare alla sua personalità mostruosa, che è destinato a superare: “Agli occhi del mondo, siamo entrambi dei mostri. […] Siamo come due poli opposti. Io voglio ascendere verso l’eterna bellezza, nonostante sia nato e abbia vissuto finora in modo insignificante. Tu sei nato al di fuori da un mondo che non ti accetta, ma, nonostante tutto, cerchi ancora disperatamente di esserne parte“. E l’inseguito diventa l’inseguitore.

L’eterno dissidio umano tra Bene e Male, tra luce e tenebre, ma soprattutto tra la parte migliore di noi e la parte più deplorevole e agghiacciante si consuma qui, in uno scontro serrato che diventa un dialogo muto tra i due opposti, ciò che l’umanità considera un mostro e che vuole salvare il mondo e ciò che proviene da un’umanità irreprensibile e che vuole annientarla. E, a questo punto, ci si chiede che cosa è davvero il mostro? In un modo un po’ meno filosofico e complesso degli interrogativi posti da Sweet Home, anche Connect introduce una serie di tematiche che diventano un’analisi della grandezza e della brutalità umana al tempo stesso, dove l’oscuro e la luce si confondono ed è facile scambiare per angeliche creature che non lo sono affatto, ma che aspirano solo alla fugace ed eterna perfezione della bellezza. Rimane, però, sempre aperto un quesito, come una piaga che ci sconvolge l’esistenza: se tutte le parti di noi sono legate, come in una connessione quasi cybernetica, questo significa che anche i nostri frammenti buoni e cattivi sono, a loro volta, connessi fra loro, in uno scambio continuo dove le differenze rischiano di dissolversi, se il libero arbitrio non viene esercitato per il bene. In quest’eterna connessione, dove Bene e Male stanno a guardarsi reciprocamente come a valutarsi da lontano in un duello alla Sergio Leone, la scelta estrema è rimessa all’essere umano e alla sua volontà, così come è rimessa a tutta l’umanità la capacità di accettare le differenze, che non sono una perdita o un ostacolo, ma costituiscono una ricchezza.

Non rivelerò cosa accadrà al serial killer, se verrà catturato e consegnato alla giustizia o meno, né cosa accadrà al nostro eroe e al suo occhio, nella loro reciproca ricerca, perché, una volta iniziato questo drama (e superate le prime angosce e le prime paure, da cui, tuttavia, non riuscirete a liberarvi del tutto fino alla fine), è necessario divorare gli episodi quasi di seguito, trasportati nell’immobilità notturna di questo eterno inseguimento tra le due metà opposte. Connect (커넥트) è un drama horror/crime/sci-fi ben sviluppato e diretto con esperienza dal regista giapponese Takashi Miike (uno che, dei film d’azione con ninja, Yakuza e katana, che tanto piacciono a Tarantino, ha creato dei casi cult in Asia), ispirato all’omonimo webtoon scritto e disegnato per la piattaforma Naver da Shin Dae-sung e prodotto da Studio Dragon e Disney+. Tuttavia, nonostante la bravura degli attori e il ritmo serrante mantenuto sempre in modo costante e piacevole, a mio avviso è un esperimento interessante, ma riuscito solo per metà. La serie, infatti, è molto intensa, ma troppo corta per i miei punti di vista: si tratta solo di 6 episodi, giusti per sviluppare e portare a compimento il caso del serial killer e la piccola parabola momentanea del protagonista, ma troppo pochi per concludere tutte le tematiche che sono state proposte in poco tempo e che non sono state più riprese (chi sono e da dove vengono i Connect, quanti sono, dove si nascondono, esiste un futuro per loro?). Tutt’al più che ci troviamo di fronte un Jung Hae-in in stato di grazia, duro, oscuro e senza sorriso come in D.P., motivato ad alzare l’asticella delle sue performance. Giacché non mi risulta che la serie sia stata rinnovata, né che sia stata mai contemplata una seconda stagione, il mio appello alla produzione è il seguente: serve un continuo subito! E non tanto per il finale (perché una conclusione c’è, abbastanza soddisfacente e senza cliffhanger), ma perché servono spiegazioni su troppi indizi disseminati a caso e perché tutti, in fondo, siamo un po’ dei Connect e ci siamo rivisti nel protagonista. Certo, magari non proprio nel suo occhio.

Consigliato: a chi non ha timore di horror, crime agghiaccianti, storie di serial killer, simbolismi esoterico-demoniaci e scene cruente (traffico di organi compreso); a chi vuole vedere Jung Hae-in in un ruolo diverso dal consueto, nonostante sa già che sentirà la mancanza del suo sorriso da orecchio ad orecchio; a chi ama i fumetti e le storie cupe e vuole spezzare il classico ritmo delle storie d’amore dramose (o forse no, perché su quel fronte questa serie potrebbe riservare delle inaspettate sorprese).

Captain-in-Freckles

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