Mad for Each Other (ovvero la reciproca guarigione contro la violenza del mondo)

“Le giornate di pioggia fanno uscire matti”

Con quest’incipit breve e incisivo si apre una serie coreana atipica e sui generis, che inizia come una commedia stralunata e quasi grottesca per, poi, addentrarsi in diversi messaggi complessi e quanto mai attuali, che si insinuano in modo blando e scuotono dalle fondamenta una società malata, priva di umanità e dominata dalla violenza, dove si tende a non osservare il prossimo e ad aumentarne le sofferenze. La bellezza di questa serie è che, in ogni caso, presenta la sceneggiatura di una commedia degli equivoci, brillante e coinvolgente, con due personaggi protagonisti che impariamo a conoscere e ad apprezzare proprio nelle loro apparenti stramberie sin dal loro primo incontro, durante una pioggia che fa diventare matti (nel vero senso della parola).

Noh Hwi-oh (interpretato dalla mobilissima faccia di gomma di Jung Woo, attore che vale la pena recuperare anche nel recente Model Family e che ha una bravura comunicativa incredibile) è un poliziotto, che, dopo aver aggredito in modo violento uno spacciatore che aveva colpito il suo collega, è stato sospeso temporaneamente ed è stato mandato a consulto psichiatrico. La diagnosi è che soffre di un disturbo depressivo da trauma, che aumenta i suoi scatti di ira e gli rende difficile gestire la rabbia. Lungo il cammino per raggiungere la psichiatra, s’imbatte in Lee Min-kyung (la bravissima Oh Yeon-seo di A Korean Odyssey e di Cafè Minamdang, che qui dà il meglio di sé), la cosiddetta “pazza del quartiere”, che va in giro con enormi occhiali da sole anche in piena notte e un fiore appuntato sopra l’orecchio in mezzo ai capelli arruffati. Anche Min-kyung va dalla stessa psichiatra di Noh Hwi-oh per una serie di disturbi ossessivo-compulsivi da trauma non rimosso, che hanno cementificato in lei timori, ansie, paure, insicurezze e psicosi varie. Per una serie di equivoci (che culminano quando i due scoprono pure di essere vicini di casa), Min-kyung scambia Noh Hwi-oh per un maniaco e cerca in tutti i modi di denunciarlo o, comunque, di coalizzare il vicinato contro di lui, fomentando, ovviamente, i suoi scatti di rabbia. I due iniziano nel peggiore dei modi una strana e scapestrata amicizia, che si trasforma presto in un tenero affetto, di quelli in cui non è necessario parlare, perché ogni piccolo gesto e ogni piccolo sguardo da soli significano molto. Min-kyung e Noh Hwi-oh si aprono l’una con l’altro, dialogano, portano a galla i propri timori e le proprie sofferenze, i traumi del passato e le ansie per un futuro che vedono in modo poco chiaro, in uno scambio emotivo che diventa una reciproca guarigione. Più di qualsiasi visita dalla comune psichiatra, può il loro legame nell’affrontare e superare i propri spettri della vita e nel comprendersi a vicenda, anche e nonostante le piccole idiosincrasie che li affliggono, per arrivare a riniziare ad amare in modo profondo, quando nessuno credeva più di poterlo fare, e a ritornare ad essere ammessi nel consorzio sociale.

E qui arriva la bomba, quella tragedia che temevano già all’inizio nel traumatico passato di Min-kyung e che è alla fonte delle sue stranezze, che inizialmente ci avevano fatto sorridere (“Non ti sembro pazza? Voglio che le persone mi evitino“): Min-kyung, in realtà, è una donna vittima della violenza del suo ex partner (interpretato da un agghiacciante Kim Nam-hee di Sweet Home e The Law Cafè, che ho faticato quasi a riconoscere). Nel suo recente passato, c’era una brillante carriera lavorativa, un aspetto invidiabile e quasi superbo e una relazione in cui credeva intensamente con un uomo, che, a sua insaputa, era sposato. Una volta conosciuta la realtà (attraverso la bocca della moglie legittima) ed esposta al pubblico ludibrio della società (che l’aveva derisa e giudicata per il suo comportamento), Min-kyung aveva tentato di lasciare il suo partner, che, però, aveva reagito alla rottura, prima, minacciandola di diffondere foto e filmati della loro vita intima registrati a sua insaputa, e, dopo, picchiandola selvaggiamente nel tentativo di ucciderla. Min-kyung, pur sola e salva per miracolo dal violento pestaggio, aveva trovato il coraggio di denunciare quell’uomo che aveva creduto di amare e, così, era stata bersagliata nuovamente da un linciaggio sociale e mediatico senza pari, accusata di essere una falsa vittima, una rovina famiglie, una poco di buono, una tentatrice per uomini perbene. “Come ha fatto a vivere e a reggere a tutto questo da sola?“, si chiede Noh Hwi-oh, quando viene a conoscenza dei fatti e recupera il fascicolo del caso, decidendo non solo di non abbandonare Min-kyung, ma di lottare con lei, fianco a fianco, a superare le avversità, anche quando l’ex partner violento riappare nella sua vita.

In 13 intensi e relativamente brevi episodi e con dialoghi brillanti e quasi giocosi, Mad for Each Other ci pone davanti ad una serie di tematiche, ognuna delle quali meriterebbe una trattazione a sé: l’importanza della salute mentale, il superamento dei traumi, la coesione sociale, la violenza sulle donne da parte dei partner, il revenge porn, il cyberbullismo, le fake news, gli haters sui social, lo stalking. Per questo motivo, l’ho trovato un drama benefico e catartico, la cui visione è caldamente consigliata perché invita a riflettere su una piaga della società odierna, la violenza contro le donne, che trova il suo apice nel femminicidio. Con questo termine, usato per la prima volta con quest’accezione dall’antropologa e sociologa americana Jane Caputi nel 1990, s’intende la “uccisione di una donna da parte di un uomo per motivi di odio, disprezzo, piacere o senso di possesso delle donne” ed è legato ad un’idea di “violenza strutturale” nei confronti di una persona di genere femminile, che trova la sua espressione in un insieme di gesti violenti, che tendono a minare la sicurezza femminile, ad isolarla e a porla in un rapporto dove il partner maschile assume il ruolo di padrone e possessore della vita altrui. Nonostante in tutto il mondo si moltiplichino ogni anno le iniziative per sensibilizzare sull’argomento e per demonizzare comportamenti di una mascolinità abusiva che rischia di sfociare in atteggiamenti di violenza, ogni anno si contano migliaia e migliaia di vittime di femminicidio in diversi paesi, creando quello che di fatto oggi è diventato un fenomeno dilagante che gli stessi governi tentano di arginare. Non mi piace la parola “fenomeno”, come non mi piace nemmeno la parola “femminicidio”, che ha in sé l’alone stigmatizzante della donna come agnello sacrificale. Non mi piacciono questi termini e non li vorrei nemmeno sentire pronunciare, come non vorrei sentire imperversare notizie relative a donne che continuano a rischiare la propria vita per la colpa di avere amato e di essersi fidate dell’uomo sbagliato e che spesso si vedono anche condannate da una società che si è dimenticata cosa sia la compassione. Sono termini che non mi piacciono perché vorrei che non esistessero i fatti che li alimentano, ma di cui è necessario parlare perché questa piaga sia sradicata per sempre dalla società. La donna muore e subisce violenza due volte, nell’uccisione fisica e morale da parte del suo aggressore e nel linciaggio e/o nell’oblio della società, che interviene condannando il comportamento della vittima, quasi come se fosse in parte responsabile di aver causato quella violenza su se stessa. Senza rendercene conto, la violenza nei confronti della donna parte dai minimi atteggiamenti, dalle cattiverie dette senza pensare, dalla battuta sessista e falsamente bonaria, dal falso buonismo e pietismo e dalla cultura della prevaricazione che ci è stata radicata da secoli. Per cui, è necessario parlarne e smontare determinati tabu, perché solo un controfenomeno culturale può demonizzare ed eliminare, seppur con lentezza, questa brutta pagina sociale.

Consigliato: a tutti, perché è una serie coraggiosa che sa parlare di traumi, di violenza e di salute mentale con sobrietà e con il sorriso e perché i due protagonisti sono due adorabili e fragili folli, che, nelle loro fragilità, riescono a trovare un perfetto ed armonioso equilibrio, guarendosi l’un l’altra con una delicatezza rara e toccante.

Captain-in-Freckles

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