My Liberation Notes – Il diario della mia libertà (ovvero elegia dell’introversione)

«Cinque minuti al giorno.
Se hai cinque minuti di pace, la vita è sopportabile. Cerco di raccogliere momenti di euforia in parti da quattro a sette secondi per coprire quei cinque minuti. Riempio cinque minuti al giorno così.
È così che sopravvivo».

My Liberation Notes (in originale Naui Haebangilji o, meglio, 나의 해방일지; tradotto in italiano come Il diario della mia libertà) non solo non è una drama di facile comprensione, ma non è nemmeno il classico drama coreano con quegli elementi stereotipati, che ci hanno tanto fatto sorridere e innamorare del genere, i dialoghi brillanti e le storie d’amore sospese tra i protagonisti. Non c’è azione, rincorse e sparatorie, né incomprensioni e scenette tragicomiche nelle interazioni tra i personaggi. Manca la scena madre della sbronza di lato, quella che coincide con la grande rivelazione di uno dei personaggi (anche perché, in questa storia, chi è ubriaco lo rimane dall’inizio alla fine). E, soprattutto, non rientra né nella categoria dei melo con finale tragici, né in quella dei romance con happy ending, per un semplice motivo: My Liberation Notes non finisce affatto. Come in qualsiasi narrazione di una parte della vita, non è necessario trovare un inizio e una fine: è solo un episodio, un piccolo e fugace frammento di esistenza, che dà modo di leggere letteralmente i pensieri dei protagonisti, entrare in connessione con loro, dialogare internamente, percepire il rapporto con la più grande e complessa esistenza umana, all’interno della quale sono solo uno sparuto puntino in cerca della propria serenità interiore, e, infine, lasciarli andare. Ed è questo uno dei motivi che la rende una serie slice-of-life straordinaria, intima e riflessiva, un piccolo gioiello d’autore, che molti hanno paragonato alla serie americana This is Us, ma che fa rimanere intatta la lirica della prosodia orientale.

Estate 2019, ferma, immota e afosa. Una calda estate da odiare, in cui “la temperatura che si inspira è uguale a quella che si espira” (citazione letterale). Yeom Ki-jeong (Lee El di A Korean Odyssey), Yeom Chang-hee (Lee Min-ki di Because This Is My First Life) e Yeom Mi-jeong (Kim Ji-won di Fight for My Way e Lovestruck in The City) sono tre fratelli che ogni giorno, per ragioni lavorative, fanno i pendolari a Seoul dalla cittadina di campagna di Sanpo, situata nella provincia di Gyeonggi-do, il bianco albume d’uovo, che, statico e privo di sapore, circonda la capitale (citazione letterale), eppure se ne discosta così fortemente con le sue tradizioni e il suo arcaismo, che imprigiona i tre fratelli.

Ki-jeong, la maggiore, è all’alba dei 40 anni e, nonostante abbia una carriera ben avviata nelle indagini statistiche, lamenta una vita sociale e affettiva praticamente inesistente, quasi bloccata da un ruolo in perenne attesa della felicità: “Ci sono così tante persone. Dovrebbe essere arrivato finalmente il mio momento. Non sono mai riuscita ad ottenere nulla quando l’ho voluto. Sono stata in attesa per tutta la vita. In attesa del cibo, di tornare a casa e, anche, degli uomini“. Per questo motivo, ha deciso che deve trovare qualcuno – chiunque – quell’estate da amare, per avere un compagno con cui affrontare il gelido inverno. Ma è impossibile determinare l’amore sulle tempistiche, così come fissare dei paletti sul proprio ideale e Ki-jeong lo capisce quando, mentre i suoi appuntamenti al buio vanno sempre a rotoli, si innamora senza nemmeno rendersene conto di Tae-hoon, un padre single e divorziato, che vive con una figlia adolescente e due dispotiche sorelle nubili, sue ex compagne di scuola. Ki-jeong è autoritaria, volubile e insofferente come un’adolescente, teme il tempo che passa e lascia le rughe e ha paura di invecchiare senza nessuno, ma l’amore la trasforma e la fa maturare, donandole la capacità di comprendere gli altri e di empatizzare con le loro sofferenze, facendole capire che il motivo per cui soffriamo così tanto per problemi che ci poniamo da soli è il fatto che non possiamo affrontarli con qualcuno.

Chang-hee, il mezzano, è un trentacinquenne che si sente poco apprezzato e inadeguato, al tempo stesso, portandosi dietro un grosso complesso di inferiorità: “La vita stessa è imbarazzo. Nasciamo già imbarazzati, perché veniamo al mondo nudi“. Si sente poco apprezzato dal padre, uomo taciturno e solitario che sembra quasi ignorarlo, poco apprezzato dalle donne, perché povero e campagnolo, senza riuscire a portare avanti alcuna relazione, poco apprezzato sul lavoro, dove porta avanti con determinazione la sua guerra personale contro una collega. Sa di avere capacità che lo potrebbero mettere in una posizione diversa, ma, alla fine, non si vuole buttare. Incolpa il mondo, ma teme il futuro. Fino a quando non decide di dare una svolta decisiva nella sua vita, lasciando, dapprima, la velocità e la città, che lo avevano sempre ammaliato, per preferire la stasi e la famiglia, e, infine, trascurando le logiche dettate dagli impositivi della società (i soldi, il successo, il matrimonio, i figli), per seguire la sua intuizione emotiva che andrà a ridefinire la sua vita. Al contrario della sorella maggiore, la sua evoluzione – forse la più forte e completa tra tutti – non avviene nel contatto con una persona amata, ma nel cominciare ad amare se stesso e a superare la sua mediocrità interiore: “Scommetto che ho offeso un sacco di persone. Ora che sono da solo, sono diventato calmo e gentile“.

Mi-jeong è la sorella minore. Grafica trentenne di enorme talento, riservata e introversa, sopporta a stento un ambiente lavorativo e sociale che la vorrebbe come una persona diversa: i pranzi in compagnia dei colleghi, le cene alcoliche fuori, i vestiti all’ultima moda, il bikini di un colore sgargiante contro il suo costume intero unico fondo… Consapevole della sua diversità, si sente inizialmente inadatta a condurre la medesima vita degli altri: “Non mi sento a mio agio a letto, non mi sento a mio agio circondata dalle persone. Perché non posso ridere felice come gli altri? Perché sono sempre triste? Perché sono sempre nervosa? Perché tutto mi irrita?“. Nel suo caparbio silenzio, Mi-jeong rappresenta la ribellione ostinata e perseverante, che rimane inflessibile e coerente con se stessa anche di fronte alle illusioni del mondo: “Le persone che dicono di vivere felici e in salute sono le persone che hanno lasciato tutte queste domande dietro di loro. Così va la vita. Ma io non sarò mai così“. Quando, al lavoro, la obbligano ad iscriversi alle attività post-lavoro per socializzare, Mi-jeong, con il suo silenzio e i suoi occhi bassi, si ribella (“Perché non lasciano in pace noi introversi?“) e fonda la sua personale attività post-lavoro, il Club della Liberazione, dove ognuno deve sentirsi libero con se stesso e con gli altri di “liberarsi” dalle oppressioni e dalle imposizioni che sembrano frastornare e condizionare l’esistenza e, in questa liberazione, riscoprire se stessi, il proprio intimo, i ricordi, le memorie, le emozioni e le aspirazioni. Come afferma Mi-jeong: “Voglio la liberazione, voglio essere liberata, non so da cosa sono tenuta in trappola, ma mi sento prigioniera. Voglio essere libera“. Solo tre regole sono richieste per entrare nel Club, le regole di base per liberarsi dalla falsa apparenza a cui assoggetta la società: “1. Non fingerò di essere felice; 2. Non fingerò di essere infelice; 3. Sarò sempre me stesso“.

E, poi, c’è Mr. Gu (e qui sfido a non prendere una vera e propria sbandata per Son Seok-ku, capace di recitare solo con uno sguardo e senza dire una parola, anche se non lo avete visto in Designated Survivor o in altro). Come dice Mi-jeong, la sua vita si divide in un prima e in un dopo Mr. Gu, questo misterioso personaggio, di cui si ignora il nome, apparso dal nulla l’inverno precedente e che lavora nei campi e in segheria con il padre dei tre fratelli. Mr. Gu non beve come qualsiasi persona umana, ma vive bevendo, in un perenne stato di etilismo con cui cerca di uccidersi, perché, come afferma, quando è ubriaco si sente più umano di quanto non potrebbe mai esserlo da sobrio: “Quando bevo, sembra che i pezzetti di puzzle che fluttuano nella mia testa si ricompongano e trovino pace“. Nonostante in paese circolino voci poco incoraggianti su Mr. Gu (qualcuno gli attribuisce un passato criminale – e forse non ha tutti i torti) e nonostante lui abbia paura di Mi-jeong (perché lei gli legge dentro l’anima, come nessuno sa fare – citazione letterale), un giorno Mi-jeong si avvicina a quest’uomo taciturno e stanco della vita e gli propone un accordo: “Non voglio essere amata. Sono stanca di essere amata. L’amore non è abbastanza per me. Venerami. Voglio sentirmi completa. Voglio che tu inizi a venerarmi quest’estate. La tua venerazione riempirà il mio freddo in autunno e in inverno e rinasceremo come delle nuove persone in primavera“. E Mr. Gu, con i suoi occhi melanconici e distanti, apprende che “venerare” qualcuno significa non solo amarlo, ma stare sempre dalla sua parte, senza domandare troppi dettagli, dando sostegno e fiducia, facendo capire che tutto è e sarà sempre possibile, ma è anche un atto di decisione e di volontà, molto più solido e omnicomprensivo dell’amore.

La “venerazione” comprende una totale e reciproca fiducia nell’altro, come sentirsi liberi di gridare il suo nome in mezzo alla strada, ed è un appiglio che dà significato all’esistenza e che perdura nel tempo, anche quando le contingenze della vita separano per anni e riuniscono di colpo; come una telefonata improvvisa: “– Alla fine ti sei liberata? – No. – Hai trovato qualcuno che ti veneri? – Ovviamente, no. – Vediamoci. – Non posso. – Perché? – Sono ingrassata. Devo perdere peso. – Dimagrisci in un’ora e, poi, vediamoci“. E ancora: “– Vuoi un lavoro part-time? – Quale lavoro? Pulire? – No. – E allora? – Ascoltarmi parlare“. E infine: “Yeom Mi-heong! Devi sapere una cosa. Mi sei piaciuta per davvero. Non ho idea di cosa potrei diventare. Probabilmente, finirò come un barbone. Sarò grato se potrò finire tutto prima di diventarlo. Ma, in ogni caso, mi piaci“.

Nessuno sa come andrà a finire ai protagonisti, se continueranno ad amarsi e a venerarsi, se si libereranno, se troveranno la loro piccola felicità o se daranno una risposta al senso della vita. Ma non importa. Ciò non deve interessare lo spettatore, che riemerge dalla visione, svuotato e arricchito al tempo stesso, perché, senza rendersene conto, avrà iniziato la sua piccola e personale fase di liberazione. O, forse, è da tempo che la porta avanti, silenziosamente e caparbiamente, senza coinvolgere nessuno, una liberazione dalle imposizioni e dai vincoli, anche invisibili, che ci tengono legati, certi che “qualcosa di bello accadrà oggi” (citazione letterale), dove con la parola “oggi” bisognerebbe intendere ogni giorno della propria vita, accettando noi stessi e costruendoci il destino man mano, perché “il destino non è nulla di più che lo sguardo di una persona alla propria vita” (citazione letterale).

Consigliato: a chi cerca un drama non convenzionale e non ha paura di scavare all’interno del proprio intimo; a chi ama gli approfondimenti psicologici ed è pronto emotivamente a versare lacrime ad ogni singolo episodio; a chi guarda serie e film con un blocco per gli appunti alla mano, perché, credetemi, ne vale la pena.

Captain-in-Freckles