Nel nostro consueto appuntamento con le recensioni di serie televisive, abbandoniamo per un momento le sponde coreane dei K-drama per approdare in terra nipponica, che ha dato i natali ad alcuni degli esempi distopici più interessanti degli ultimi anni. Che il Giappone fosse la patria delle moderne distopie, in qualche modo, ne avevamo avuto diverse conferme grazie all’utilizzo della tematica in anime, manga, light novel, film e romanzi di ogni tipo, che era culminata con il libro e la pellicola Battle Royale (per alcuni ispiratore di Squid Game, quasi certamente una delle fonti per la fortunata saga americana di Hunger Games). In questo filone, si inserisce perfettamente l’interessante dorama (ドラマ) Alice in Borderland.
Ryohei Arisu (Kento Yamazaki, che ha interpretato il detective L nel live action di Death Note) è uno studente universitario sfiduciato del futuro ed apatico nella vita, che preferisce chiudersi nella sua stanza e trascorrere le giornate in pigiama davanti ai videogame che prendere decisioni sul suo futuro: al confine per diventare un vero e proprio hikikomori, salvato da questa sorte solo dalla presenza di amici che vede con regolarità, possiamo definire la sua figura come un NEET, acronimo per sintetizzare l’apatia di una giovane generazione tra i 15 e i 29 anni, che non studia né cerca un lavoro e perde la propria esistenza davanti al PC. Un giorno, mentre sta bighellonando per strada insieme ai suoi amici di lunga data – l’informatico timoroso Chota Segawa (Yuki Morinaga) e il barista rissoso Daikichi Karube (Keita Machida) – si ritrova in una Tokyo deserta e abbandonata che somiglia molto ad uno dei suoi amati videogiochi di sopravvivenza. Tutti coloro che vi si trovano, infatti, sono obbligati a partecipare a prove mortali associate alle carte da gioco (quadri, fiori, cuori, picche) e solo la sopravvivenza a tali prove dà la possibilità di vivere per un certo tempo, altrimenti degli invisibili Master provvedono ad eliminare i malcapitati che si rifiutano di giocare con un raggio laser. Mentre le giornate trascorrono tranquille e deserte e le notti sono costellate da un carosello di prove di sopravvivenza, Ryohei Arisu fa la conoscenza di Yusuha Usagi (Tao Tsuchiya), un’esperta alipinista che ha perso il padre in un incidente di montagna, e insieme decidono di cercare la Spiaggia, un luogo utopico di cui tutti i sopravvissuti parlano come un rifugio sicuro, governato dal folle Takeru Danma (interpretato da Nobuaki Kaneko), detto il Cappellaio, il cui obiettivo è raccogliere tutte le carte da gioco per fuggire da quella prigionia, ma anche creare la sua piccola isola felice dove tutti possono vivere liberamente e senza restrizioni. Ma si sa, utopie simili sono destinate a non durare, anche perché alla Spiaggia vivono soggetti alquanto bizzarri: Shuntarō Chishiya (Nijiro Murakami), giocatore misterioso e sociopatico, una macchina da guerra della razionalità; Hikari Kuina (Aya Asahina), una ragazza transgender, munita di dreadlocks e caramelle e segretamente asso delle arti marziali; Morizono Aguni (Sho Aoyagi), ex militare vagamente affiliato alla Yakuza che può combattere a mani nude contro una tigre (letteralmente); Rizuna Ann (Ayaka Miyoshi), una ex detective della scientifica diventata il braccio destro razionale del Cappellaio; Kano Mira (Riisa Naka), una donna misteriosa e perennemente in nero, che segue come un’ombra il Cappellaio; Niragi (Dori Sakurada), giovane e psicopatico membro del servizio d’ordine, che cambia la sua precedente vita da nerd con un’esistenza da assassino depravato; Last Boss (Shuntaro Yanagi), giovane ex hikikomori, che ha mutato il suo aspetto per diventare una creatura orrida, bianca, glabra e tatuata, munita di una lunga katana con cui uccide indifferentemente più dei giochi di sopravvivenza… ed altri ancora, uno più folle e particolare dell’altro.
Di fatto, la serie è divisa in capitoli, così come il manga da cui è tratta (今際の国のアリス Imawa no kuni no Arisu), scritto e disegnato da Haro Aso tra il 2010 e il 2015, per cui è possibile dividere facilmente la parte dei giochi iniziali da quella della spiaggia, con un cambiamento totale di visuale, che costringe quasi lo spettatore a passare dalla logica manga/anime di Sword Art Online (personaggi intrappolati loro malgrado in un gioco in full dive) al survivor series in stile Lost (l’utopia distopica della Spiaggia con tutte le dinamiche che intercorrono) e che, soprattutto, destabilizza talmente tanto lo spettatore sull’obiettivo finale (sopravvivere ai giochi, trovare la Spiaggia, cercare le carte, recuperare i mazzi di carte rubati, combattere contro il sovvertimento di potere all’interno della gerarchia della Spiaggia), tanto da far perdere per davvero quale dovrebbe essere il fulcro della liberazione: ovvero individuare il master del gioco e scoprire perché (e come) ha rapito tutte quelle persone per poter evadere da quella realtà. Per cui la manifestazione finale del master (o dei master) sembra quasi una decomposizione di tutte le idee fino a quel momento individuate, nell’ottica di ricostruirle nuovamente per la prossima stagione (il cui arrivo Netflix ha annunciato a breve).
Ma che cosa vuol dire il titolo che sembra riecheggiare la fiaba di Lewis Carroll? Anzitutto, il protagonista si chiama Arisu, che, scritto in katakana, si legge nello stesso modo della trasposizione in giapponese del nome inglese Alice. E proprio come Alice, anche Arisu viene casualmente ed inspiegabilmente catapultano in un mondo fittizio e immaginario, dove la bellezza e la meraviglia nascondono le insidie e le cattiverie dell’animo umano. Non per niente è un Wonderland che si è tramutato in un Borderland, termine che in geopolitica e in diritto si usa per indicare una linea di confine – talvolta, piuttosto pericolosa – tra due Stati dove imperversano figure che si dissociano dalle regole e dalle istituzioni civili, e che in sociologia delinea l’esistenza al margine di una società. Se andiamo ad analizzare i personaggi di Alice in Borderland, tutti, più o meno, si trovano ai margini della società, o perché l’hanno rifiutata o perché ne sono stati rifiutati o perché hanno difficoltà ad integrarsi in essa oppure, infine, perché vivono falsamente all’interno di essa, sovvertendola in segreto. Ma è Bordeland anche l’immaginaria terra di confine creata dal Cappellaio, che parte dal presupposto di negare qualsiasi regola esistente nelle società umane e che, nel rifiuto di queste, non fa altro che creare una nuova e più temibile impalcatura di regole e di gerarchie, un sillogismo negativo che va a travolgere l’umanità stessa.
Che cosa ha portato questo dorama al successo internazionale? Sicuramente, la fusione ben calibrata di horror, fantascienza, thriller, azione e giochi di ruolo; ma anche il ritmo narrativo orchestrato di momenti di apparente calma con punte aguzze di violenza inaudita, come uno stridore di unghie sui vetri; e, infine, il messaggio di base, per cui fuggire dalla società umana e rifiutarla non è la soluzione adatta perché non fa altro che spingere nel baratro della negatività e della marginalità umana, creando nuovi apparentemente lucidi stati di follia.
Consigliato: a chi è amante del genere horror/fantascienza/distopico ed è disponibile a piccoli e grandi colpi di suspence e d’azione; a chi è amante di manga/anime e si incuriosisce a vedere una serie che, pur nella sua affinità, si slega completamente dalla fissità dei live action giapponesi troppo fumettistici; a chi cerca una serie diversa dal solito nel mare dei drama asiatici; a chi ha amato Alice nel Paese delle Meraviglie ed è pronto a vederne una sua versione deformata.
Captain-in-Freckles

5 pensieri riguardo “Alice in Borderland (ovvero stati mentali deliranti ai margini della società)”