Pachinko – La Moglie Coreana (ovvero la persistenza della memoria e dei legami)

Un cappello Panama bianco nella luminosità estiva, lo sciabordare delle onde del mare che trasportano una giovane nuotatrice, il fruscio del vento che muove l’erba alta, il chiacchiericcio delle lavandaie scalze, il parlare biascicato dei pescatori cotti dal sole che tornano alle loro case, il vocio indistinto del popolo al mercato, i colori degli hanbok tradizionali abbottonati fino al collo, capelli neri stretti in una treccia che si muove davanti ad un cielo di un azzurro immenso. E, poi, ancora: il moto impetuoso della tempesta marina, la voce cristallina di un soprano coraggioso, l’incalzare terribile del piede militare, l’anonimato chiassoso della povertà, la luce lontana della libertà, il grigio mesto dei cieli cittadini, il rombo spaventoso del terremoto, la malinconica tristezza dietro ad un finestrino. Suoni, luci abbaglianti, rumori, immagini a tratti quasi dipinte, colori che intersecano lo sguardo di Sunja, come i ricordi attraversano la sua vita con la dolcezza e l’amarezza della memoria.

1989. Il giovane Solomon Baek (Jin Ha) torna in Giappone dagli Stati Uniti, con una laurea in tasca ottenuta in modo brillante in una delle università più prestigiose e un lavoro sicuro presso la filiale di Tokyo di una famosa banca americana. Il ragazzo, però, può tornare a casa solo grazie ad un passaporto ottenuto per motivi di studio e lavoro, perché non è cittadino giapponese: è un immigrato coreano di terza generazione, che non può conseguire né la cittadinanza giapponese, né quella coreana, bloccato in un limbo senza patria, sicuro che solo da lui può dipendere il riscatto della sua famiglia. Lo accolgono a casa il padre, Mozasu Baek (Park So-hee), un pacato uomo di mezza età che gestisce una serie di sale pachinko, gioco d’azzardo particolarmente amato in Giappone, Etsuko (Kaho Minami), la moglie giapponese del padre, e Sunja (il premio Oscar per il film Minami Yoon Yeo-jeong), la nonna, immigrata in Giappone prima della Seconda Guerra Mondiale, una donna esile e grigia, che rappresenta, in realtà, la vera forza tacita e resistente come la pietra della famiglia Baek. Dagli occhi di Sunja, la telecamera torna indietro nel tempo alle memorie passate che hanno forgiato questa donna (da giovane interpretata dalla bravissima Kim Min-ha): la sua nascita quasi miracolosa in uno sperduto paesino meridionale della Corea rurale, visto i problemi della madre a portare a termine una gravidanza, il marchio della deformità del padre (zoppo e col labbro leporino), la vita di sacrifici e di lavori silenziosi che scandiscono le giornate fino all’incontro con Koh Hansu (il Lee Min-ho di The Heirs, qui in splendida forma), un ispettore commerciale di origine coreana che lavora al mercato di Pusan, ma che, a tutti gli effetti, parla e si comporta come un invasore giapponese. In realtà, anche Hansu è un figlio dell’immigrazione coreana in Giappone, costretto da una vita di asperità ad indossare una scomoda armatura che gli si è cucita perfettamente addosso e di cui ormai è diventato schiavo, la scorza dura del malavitoso con agganci governativi e privo di pietà e di umanità, che trova, però, in Sunja un’ancora di salvezza, un piccolo mondo felice che vuole tenere celato a tutti. Sunja lo ama con trasporto come non avrebbe mai pensato, ma, quando gli rivela di essere incinta, apprende che Hansu è già sposato (N.d.R.: con una donna giapponese, figlia di un boss della Yakuza, a cui, peraltro, è anche affiliato) e che non può lasciare la moglie per sposarla. Nell’amara delusione, però, Sunja mantiene intatto l’orgoglio e rifiuta di essere la “moglie coreana” di Hansu, ovvero la seconda donna, l’amante disponibile ad accogliere il suo uomo solo nei suoi momenti di evasione dalla routine familiare, e si dichiara pronta ad accettare le conseguenze e le durezza che una società arretrata può riservare ad una donna sola e povera con un figlio. Un giorno, però, salva la vita a Isak (Noh Sang-hyun, anche noto come Steve Sanghyun Noh), un missionario cristiano proveniente da Pyongyang e diretto ad Osaka dal fratello Yoseb (Han Joon-woo) e dalla cognata Kyunghee (Jung Eun-chae), dove ha intenzione di prendere una parrocchia. Sunja lo accudisce nella malattia e gli confida il suo segreto, mentre Isak, che in tutto questo vede un progetto divino, se ne innamora e decide di salvarla da qualsiasi umiliazione sposandola e portandola con sé in Giappone. Sunja, giorno per giorno, impara ad amare questo marito timido e gentile (da cui avrà anche un altro figlio), che le farà scoprire la fede, e a sentirsi parte della nuova famiglia, pur in una città ignota, di cui non conosce persino la lingua. Quasi agli albori della guerra, inizia a capire che Isak non annuncia ai suoi fedeli solo la buona novella, ma anche la libertà e la democrazia, spingendoli a ribellarsi contro gli oppressori giapponesi, e che, per questo motivo, è finito nel mirino della temibile polizia politica nipponica. Ed è qui che Sunja non si dà per vinta, diventando la muta e caparbia resistenza della sua famiglia (e non solo) in mezzo alle avversità, mentre i suoi movimenti sono seguiti da lontano dall’occhio di Hansu, che non si è mai dimenticato di lei.

Pachinko, anche noto con il titolo La moglie coreana, è un prodotto che si discosta dalle caratteristiche normali del drama, per avvicinarsi di più, dal punto di vista tecnico e narrativo, alle serie americane e a certo cinema d’autore e di epopea che, solitamente, fa incetta di premi nei festival europei. Non c’è una sbavatura nell’uso della telecamera e della fotografia, nelle scenografie panoramiche, nei piani sequenza che indugiano sui volti dei protagonisti o su alcuni particolari della natura, nella commistione di suoni e immagini, nell’arrangiamento musicale e nella limpidezza del montaggio. Sembrerebbe nato per vincere un Oscar, se solo fosse stato un film, e anche la bravura recitativa degli attori lo dimostra, tutti impeccabili, ognuno perfettamente in parte.

Il soggetto è ispirato all’omonimo romanzo di Min Jin Lee, eppure se ne discosta per alcune particolarità (chi ha letto questo libro straordinario capirà di cosa parlo), oltre che per la discrasia tra fabula e intreccio, che nella serie è arricchito da continui flashback che riportano frequentemente dal 1989 al passato di Sunja e che, personalmente, hanno impreziosito e migliorato il soggetto, rendendolo più intimo e avvicinando lo spettatore/lettore alle emozioni celate della protagonista. Questa tecnica, tra l’altro, riesce a rendere ancora di più l’intenzione della narratrice: ovvero, narrare storie diverse di quattro generazioni, che si intrecciano dall’inizio del XX secolo fino alla fine degli anni ’80 su diversi territori (Corea, Giappone, Stati Uniti), e che raccontano di vita, di amore, di malinconia, di tristezza, di speranza, di fede, ma anche di identità, di appartenenza ad una storia anche senza territorio, della tacita resilienza dei Coreani, vittime di diverse occupazioni e di una variegata e complessa diaspora che ha origini lontane, vittime del pregiudizio e del razzismo che li ha denigrati e li ha costretti ai gradini sociali più infimi, ma lavoratori costanti e temerari, resistenti come Sunja di fronte alle intemperie della vita.

Sunja è l’essenza stessa dell’anima coreana, trapiantata all’estero, apolide senza terra, ma non senza radici. La famiglia è tutto, per Sunja, le sue memorie non sono solo sue, ma il coacervo di secoli di ricordi ereditati dagli antenati e pronti ad essere trasmessi alle generazioni future, dove la fede e la sconfitta sono due legami che si intersecano vicendevolmente e che si protraggono nel tempo. La Storia li ha battuti – come esordisce l’autrice nel romanzo -, ma non importa. La solidità dei legami non solo orizzontali, ma anche verticali, a cavallo fra le generazioni, e la compassione sono la radice univoca per la salvezza. C’è l’importanza del dolore e dell’umana vicinanza in questa storia complessa, fatta di poche parole e lunghi silenzi, di sguardi che affrontano il futuro senza dimenticare il passato. Ci sono miriadi di generazioni di Coreani immigrati ed emarginati, di Coreani caduti in disgrazia o entrati nella malavita, di Coreani espiantati dal proprio ambiente e volitivi a piantarsi come un albero secolare in un nuovo territorio (vedi la storia della casa giapponese dell’anziana coreana) e di Coreani che si fanno artefici non solo del proprio riscatto, quanto della conservazione di tutta la propria genealogia. Miriadi di generazioni che passano in uno sguardo, come quello di Sunja che osserva per l’ultima volta la sua terra mentre la nave la trasporta via verso il Giappone, lontana dai suoi affetti e dalla sua sicurezza, portando in grembo il futuro ignoto.

La serie Pachinko è un progetto monumentale che riesce a restituire grazia e dignità al romanzo a cui si ispira (non a caso, l’autrice risulta anche tra gli showrunner e i produttori della serie) e che negli otto episodi della prima stagione (è stata già annunciata una seconda stagione e chi ha letto il libro sa già che serve assolutamente e che, anzi, forse ne servirebbe anche una terza) fa sentire l’eco di diverse voci, trasportando lo spettatore in un mondo mai così vicino e prossimo.

Consigliato: assolutamente, sia che abbiate letto e amato il libro, sia che lo abbiate messo tra le vostre future letture, sia che non abbiate intenzione di affrontare le oltre 600 pagine che Min Jin Lee ha riempito con dovizia di particolari delle vicende di Sunja e della sua famiglia. Perché è un raro prodotto di emozione realista (vedi la scena della nave con l’altisonanza della musica lirica) e di cruda verità (vedi la descrizione del terremoto di Yokohama), ma anche di un lirismo narrativo e recitativo che si trovano difficilmente. Avvertenza: raccogliete i sentimenti giusti per la visione e non lesinate lacrime.

Captain-in-Freckles

Postilla: la sigla di apertura – ambientata, tra l’altro, proprio in una sala Pachinko – , che vede gli attori protagonisti della serie ballare da soli sulle note allegre di Let’s Live for Today, quasi a testimoniare il contrasto tra l’asprezza delle loro vite e la voglia di sopravvivere anche solo per una giornata, è già da sola un piccolo capolavoro da recuperare.