Non siamo più vivi (ovvero della crescita e della sopravvivenza)

Forse direte: oh no, la solita storia di zombie – e sappiamo bene che in Corea hanno una vera fissazione in merito (vedi il cult Train to Busan, ma anche le serie Sweet Home e Kingdom o lo stralunato Zombie Detective). E, in effetti, mi sono fatta coinvolgere perché – lo ammetto – ho anch’io la stessa identica fissazione per gli zombie. Quasi un divertissement automatico, un ritorno all’infanzia o un mega luna park mentale: non so, chiamatelo come volete, ma, appena vedo zombie, so che quel prodotto è per me, magari per farmi passare un paio di orette di pure divertimento. Poi, talvolta, accade che mi sbaglio, che il prodotto zombie era troppo noioso, troppo assurdo, troppo splatter (anche se questa cosa è immaginabile) e troppo irreale. Insomma, quella sensazione di aver buttato via ore per niente. Quando, però, imbrocco un ottimo prodotto di zombie, ne vale assolutamente la pena. Dacché, meglio chiarirlo subito, Non siamo più vivi appartiene a quest’ultima categoria.

Una normalissima giornata di sole in una fittizia cittadina della Corea del Sud inquadra un gruppetto di adolescenti di un liceo, con le loro ansie, le crisi esistenziali e di crescita, le amicizie, le paure e i primi amori, la lotta per sopravvivere al bullismo dilagante e ad una società sempre più feroce. Fino a quando una studentessa, venuta in contatto per sbaglio con un topo infetto nel laboratorio di scienze, non mostra strani sintomi: sarà l’inizio di un’epidemia, che dilagherà velocemente trasformando tutti gli infetti in creature zombie, non-morti privi di umanità che aggrediscono gli altri umani per nutrirsi (e anche per diffondere il contagio). Sarà in questo momento che un gruppetto di sopravvissuti tenterà disperatamente di mettersi in salvo, sfidando creature mostruose, attacchi bomba a sorpresa, legge marziale proclamata per contenere il contagio (memoria dei drammatici fatti degli anni ’80), ma, soprattutto, se stessi e i propri cari. Perché toccherà loro affrontare la parte più ignobile e mostruosa di sé per crescere e mettere in gioco i propri affetti e la propria volontà, che è ancora più forte di qualsiasi malevolo contagio (vedere il finale e attendere la seconda stagione per capire il commento).

Un momento per rammentare il giovanissimo cast che affronta con sicurezza e maestria fiumi di sangue e di apocalisse zombie: Choi Nam-ra (Cho Yi-hyun), la capoclasse introversa, studiosa e priva di amici che si trasformerà in una vera leader; Lee Su-hyeok (Park Solomon), l’ex ragazzo di strada pronto a difendere i deboli e a proteggere con il proprio amore; Nam On-jo (Park Ji-hu), studentessa non particolarmente brillante, ma empatica e inaspettata fonte di idee di sopravvivenza; Lee Cheong-san (Yoo Chan-young), il migliore amico di On-jo – e segretamente innamorato di lei – , coraggioso e pronto a fare a pugni con gli zombie (letteralmente); Lee Na-yeon (Lee Yoo-min, la bravissima ragazza delle biglie di Squid Game), ragazza di buona famiglia capricciosa e diffidente, tanto da essere incapace di inserirsi in società; Yoo Gwi-nam (Yoo In-soo), bullo della scuola con una cattiveria insita assurda, che peggiora nonostante l’apocalisse zombie; Jang Ha-ri (Ha Seung-ri), arciere bella e solitaria con la missione di proteggere il fratello minore Jang Woo-jin (Son Sang-yeon) e il suo amico Yang Dae-su (Im Jae-hyuk); Han Gyeong-su (Ham Sung-min), nerd genio della scuola, ma anche stratega d’eccezione…

Non siamo più vivi ovvero All of Us are dead (titolo originale: 지금 우리 학교는; Jigeum uri hakgyoneun, ovvero Ora, la nostra scuola…) è la trasposizione drama del noto webtoon Now at our School di Joo Dong-geun, pubblicato su Naver dal 2009 al 2011 e, in poche settimane, è diventato un successo planetario sulla piattaforma Netflix. Forse perché tutti ci indentifichiamo nei panni degli studenti che cercano di sopravvivere o nei profughi della cittadina al campo di quarantena (il COVID-19 ci è rimasto impresso per sempre nei nostri ricordi). O forse perché tratta del concetto di “sopravvivenza” in un modo più ampio e complesso rispetto a quello che si potrebbe immaginare per un normale prodotto di zombie. I protagonisti cercano di sopravvivere alla malattia, ma anche alla società, al bullismo esasperato, ai dissidi interiori, alle istituzioni che tendono a massificare, alle incertezze future e all’odio. E costruiscono legami, perché sanno che nel momento più critico si può fare una scelta tra il sopravvivere da soli o il vivere per gli altri e, in questa scelta, a differenza di altri survivor movie, decidono di pensare agli altri. Nulla può cambiare se ognuno si salva per sé, ma tutto può evolversi se si vive (e si muore) per le persone che amiamo davvero. Ed è l’unica visione che lascia intatti nell’anima anche nonostante gli attacchi oscuri dei zombie (o che dir si voglia).

Consigliato a chi: ama i film di zombie e i fumetti in stile The Walking Dead e, magari, si commuove ogni volta che vede Train To Busan; tende a trovare radici e significati nascosti anche negli horror; non si impressiona per qualsiasi spargimento di sangue o per pasti vagamente intensi; è così temerario da affezionarsi a tutti i personaggi.

Captain-in-Freckles